
Francesco Falcioni, una vita alla cloche dei voli di linea e militari, ripercorre i giorni della tragedia avvenuta sul Tirreno. "Ci avvisarono di esercitazioni e traffico interforze. Per noi era routine".
India Hotel 870. Tre parole. E mezzo secondo per dissolversi. Nel mare dell’ignoranza presupposta e indotta al popolo (allora ignaro) nutrito a suon di bocconi paludati di informazione istituzionale. Così, la storia dell’orrenda strage che 45 anni fa seppellì il Dc9 Itavia IH870 e le sue 81 vittime nelle viscere del Tirreno, tra le isole di Ponza e Ustica. Ma in tutta quella marmellata viscida di fake mal veicolate, c’era chi già sapeva. Perché sopra quel mare volava da una vita.
Francesco (Franco) Falcioni, pesarese, 82 anni, più di una esistenza passata alla cloche degli aerei, prima militari (otto anni) e poi civili, allora in forze al gruppo Alitalia, ricorda i cosiddetti begli anni in cui il nero fiscale salvava l’Italia ma in cui la sabbia foderava il nero dei misfatti con silenzi imbarazzanti e vittime mute, innocenti e verità sommerse. Nel suo ambiente, quello dei piloti, non si credeva alle favole. Ma la faccende si toccavano con mano.
Fine giugno ’80. La strage avvenne il 27. Di sera. Lei dov’era, Falcioni?
"Ricordo molto bene. Ero in ferie in Sardegna, proprio da un collega pilota".
Cosa vi siete detti di Ustica?
"Sono passati quarantacinque anni. Ma già si parlava di esercitazione militare".
In che senso?
"C’era, ed era risaputo nell’ambiente, un traffico interforze e intermilitare. E i rischi c’erano per chi volava. Queste esercitazioni erano in atto. Ma quelle cose c’era sempre qualcuno che era molto pronto a smentirle".
Da chi vi arrivavano queste informazioni?
"Da un ufficio apposito che si interpellava prima di intraprendere i nostri voli. Ed era a Roma Fiumicino. Per noi quella roba là era routine".
Spieghi meglio. Come vi avevano detto di preciso?
"Ci dicevano di fare attenzione, perché c’erano addestramenti militari. Era un campanello d’allarme. Bisognava guardarsi bene. E le voglio dire una cosa importante: che questo incidente ha risvegliato in me anche il mio passato da pilota militare".
Dove ha militato?
"Nella Marina. Ero pilota antisottomarino. E le esercitazioni le facevamo anche noi, con voli operativi. Mi ricordo anche di un’esercitazione notturna. Avevamo un radar che intercettava subito quello che doveva intercettare".
Sicché, quella volta, appena avvenuta la strage, che vi siete detti col collega?
"Ci guardammo. E dicemmo, tra noi: ’Chissà, forse avranno combinato qualche casino’".
Lei ai tempi era, in qualche modo, vicino al sindacato.
"Diciamo che ero tra gli esperti tecnici. Ed era emerso questo problema delle esercitazioni e degli aerei di linea. Ma ai tempi era anche un’illazione perché non era supportata da elementi precisi e circostanziati".
Allora scappò fuori pure la tesi del "cedimento strutturale".
"Pure quella non era supportata da alcun elemento".
Cosa ostacolò, allora, la diffusione di certe consapevolezze sulla strage?
"Il sospetto rimase sempre. Ma c’era anche un’altra componente: in tanti erano interessati a depistare e a confondere le acque su questa faccenda".
Che percezione aveva avuto allora?
"Capimmo che c’era qualcosa di grosso da nascondere".