Giancarlo De Carlo nacque nel 1919, l’anno in cui Walter Gropius fondò il Bauhaus. Non ebbe un’infanzia felice, intagliata in una frammentarietà affettiva nella quale non fu facile crescere. Un segreto di famiglia, come lo definisce il figlio Andrea nell’ultimo suo romanzo “La geografia del danno“; un pezzo di vita di cui Giancarlo non amava parlare; e tuttavia è la ferita dentro la quale allineò la sua esistenza, quasi una necessità, una vocazione come quella che egli vedeva nei luoghi che sarebbe andato a progettare. Il suo essere apolide per convinzione, il suo non legarsi mai a un luogo per scelta, forse, venivano da quelle radici recise.
E da quella lacerazione provenne anche il suo talento, il desiderio di costruire attraverso il progetto una nuova collettività, il senso della comunità intrinseco nell’ideazione dello spazio, l’importanza dei valori condivisi, dei progetti utopici. Dopo l’esperienza della Guerra e della Resistenza, Giancarlo De Carlo frequentava assiduamente gli amici Elio Vittorini, Albe Steiner, Vittorio Sereni, insieme alle loro compagne, di cui non si parla mai, Giuliana Baracco, Ginetta Varisco, Lica Covo, Luisa Bonfanti; abitavano addirittura gli stessi palazzi e progettavano come cambiare la società, ognuno nel proprio campo, coltivando i propri talenti messi al servizio della collettività.
Erano quegli intellettuali che poi sarebbero passati alla storia come gli “Amici di Bocca di Magra“, persone sempre intente a confrontarsi, a discutere, a impegnarsi in dialoghi finalizzati al progetto al quale stavano lavorando; persone il cui operare si fondava sulla speranza del e nel futuro, sempre nella consapevolezza che l’esistenza di ognuno avrebbe avuto valore solo se fosse diventata tempo a vantaggio di tutti. Dentro la progettazione di Urbino, dalla prima opera, la Sede Centrale, all’ultima incompiuta, la Data, passando per i due Piani regolatori, dentro i progetti per Siena, per Pavia, per Catania, per Venezia c’è sempre stata questa consapevolezza del lavoro utile per la società, quale fondamento e corrispondenza del fare architettura: "La mia vita è fare l’architetto; nel mio modo di fare l’architettura si rispecchia la mia vita". Sono l’amore e la passione per l’essere umano che si leggono nelle opere di Giancarlo De Carlo; l’attenzione per il dettaglio non rincorre una voluttà egoica ma segue la traccia di una sapienza antica, respirata nei grandi templi della classicità o nei piccoli gioielli della cultura moderna, nell’ascolto di un luogo o nel dialogo con un albero, come quello dei Collegi urbinati che Giancarlo osservava dalla finestra della sua stanza. L’equilibrio di una sezione aurea non è vincolato al virtuosismo ma ancorato allo spazio armonico, morfologicamente integrato nella struttura e nella forma che trans-forma quello spazio in luogo vissuto, in "un’architettura che coinvolga tutti perché è coinvolta con tutto".
Giancarlo De Carlo morì il 4 giugno 2005, dopo una lunga malattia contro la quale combatté fino allo stremo; negli ultimi mesi scriveva lettere con mano tremolante, su lucidi perché la penna potesse scivolare meglio, e parlava di speranze, di progetti, di utopie che sapeva non avrebbe visto. A vent’anni dalla sua scomparsa, che dire? Ne “La Repubblica“, Platone racconta, attraverso il mito di Er, che prima della nascita, l’anima sceglie un’immagine che poi vivrà come essere umano e riceve un dono, un “daimon“, che la guiderà nel suo percorso terreno. Parlando di Giancarlo, chi talvolta, preso dall’importante ruolo dello storico, si perde in critiche sterili su cosa ha funzionato, cosa funziona ancora, quali limiti le sue progettazioni evidenziano, si ferma all’uomo e non vede il “daimon“. Cioè l’anima che, dentro le ferite della vita, Giancarlo De Carlo ha amorevolmente abitato. Come Carlo Bo ha rilevato più volte, sebbene con parole diverse, la sua è un’architettura che parla e sempre parlerà all’anima perché fatta con l’anima.
Storica dell’arte contemporanea