Le vecchie zie aspettavano l’ora del thè. Al Padiglione il tempo era fermo all’Ottocento

Gli uomini cancellano gli edifici, ma le parole tengono vivi i ricordi più intimi LA STORIA Le origini e le trasformazioni della Villa il Padiglione

La famiglia Moscati all’esterno di Villa il Padiglione, demolita dalle ruspe a ottobre 2015

La famiglia Moscati all’esterno di Villa il Padiglione, demolita dalle ruspe a ottobre 2015

Urbino, 5 settembre 2015 - Clara era nata nel 1888, la sola, delle quattro figlie del Cav. Angelo Moscati, a non aver voluto un marito e quindi una dote; per questo, alla morte del padre, il Padiglione, Villa e podere, era toccato a lei.

Donna colta, di intelligenza non comune, aveva preso giovanissima la patente di guida e, viaggiatrice infaticabile, aveva come si diceva un tempo “viaggiato il mondo”, quando a viaggiare erano solo esploratori e archeologi. Eppure quando d’estate riceveva le vecchie amiche urbinati, o le sorelle con le rispettive famiglie, la Villa del Padiglione piombava in pieno ‘800.

Un settembre, al ritorno dell’annuale soggiorno in Inghilterra, fu colta da un ictus. Le sorelle allora chiusero la sua casa di città, in via Mazzini, e la portarono a Roma.

Ma puntualmente, ai primi di giugno, si riapriva la dimora estiva, il Padiglione; lei tornava con la sua infermiera e tornavano le sorelle: Aida da Parma, Giselda da Roma e Fernanda che, pur alloggiando al vicino albergo Montefeltro, trascorreva la giornata là dove era vissuta in gioventù.

Anche noi si tornava ai Quattro Venti per passarvi l’estate, al tempo eravamo ancora in piena campagna, ed era sufficiente scendere dall’altra parte del giardino (i “Samurai” non c’erano ancora) e in pochi passi raggiungevo con i miei bambini il cancello del Padiglione ai piedi della collinetta di Loreto. Le zie erano ansiose di riabbracciarli.

Il lungo viale, non ancora tagliato dalla circonvallazione Di Vittorio, fiancheggiato da alte siepi cariche di more, sbucava tra due edifici: a sinistra la Villa e a destra la casa colonica.

All’ombra dei grandi tigli erano disposti tavolinetti e poltrone di ferro battuto, ingentiliti da tovaglie e cuscini ricamati in tempi lontani; lì si ritrovavano ogni anno le zie, a volte con figli e nipoti giunti da Roma, cui si aggiungevano, in visita all’ora del thè, le vecchie amicizie urbinati.

Mi stupiva come i miei figli, solitamente vivaci, affascinati da quell’atmosfera démodé, sedevano compunti, conversavano amabilmente rispondendo con garbo alle domande, anche se di tanto in tanto lanciavano occhiate speranzose alla casa colonica poco lontana.

Da lì infatti usciva la contadina “del padijon” con un paniere colmo di cresce sfogliate, unica concessione ai tempi moderni, nonché le più buone che abbia mai mangiato.

Dalla villa invece usciva Albina, l’ultima cameriera di zia Clara, con il thè per le signore e le bibite per i bambini. Quando tutto era finito tornava Albina, reggeva un vassoio su cui erano disposti in bell’ordine minuscoli salviettini di spugna ritorti e ancora caldi, inumiditi di acqua di rose; li distribuiva con una pinza ai presenti perché ci potessimo togliere dalle dita le tracce del cibo. A questo punto i bambini avevano il permesso di alzarsi e giocare nel prato.

Quando divennero più grandicelli, finalmente liberi di correre si lanciavano in corse sfrenate con i cuginetti romani, lungo l’antico viale di cipressi che un tempo univa la Villa Tortorina al suo Padiglione di caccia. Più spesso giocavano a rimpiattino tra la casa colonica e l’orangerie, una piccola serra dalle linee eleganti dove ai tempi del Cav. Angelo Moscati trovavano riparo i grandi vasi di limoni. Le due ampie vetrate ad arco non conservavano ormai più tracce dei vetri, ma le eleganti lesene che percorrevano la facciata denunciavano chiaramente la nobile origine.

Passarono gli anni, ad una ad una le zie scomparvero, era rimasta soltanto Giselda quando un pomeriggio d’agosto giunse al Padiglione un incaricato del Comune a parlare di esproprio.

Lo accolse il figlio di Giselda, parlando sottovoce un po’ discosti perché la madre non sentisse, cercando così di risparmiarle la pena. Seguirono trent’anni di incuria e di abbandono; così quel casino di caccia, trasformato nel ‘700 dal conte Fulvio Corboli in una elegante Villa di campagna, si è arreso all’inclemenza del tempo e all’indifferenza degli uomini.

Un colpo di ruspa e non resta più nulla di quello che il poeta Angelo Battelli cantava «...dolce è posar de’ tuoi cipressi all’ombra, bel Padiglione».

articolo uscito nella edizione cartacea il 5 settembre 2015 nelle pagine 24 e 25 (edizione di Pesaro)