Pesaro, quell'uomo chiamato Joe Pace: una vita da 'Santo bevitore'

Storie di sport. Stagione 1979-1980: arriva l’americano più forte che la Scavolini abbia mai avuto. Dinamite sotto canestro, poi travolto da alcol e droga

Joe Pace con la Scavolini

Joe Pace con la Scavolini

Sul terreno dell’amata Villa Romiti, là dove da Forlì si va sulla dolce strada per Castrocaro, il giovane Bill sta tornando in difesa col sorriso beato del killer soddisfatto dopo aver segnato un canestro e aver sparato a freddo ad altezza del viso una gomitata megatonica ad un giocatore biancorosso adesso accasciato a terra.

Si trova più o meno nel cerchio di centro campo quando gli arriva u n tremendo calcio in culo che gli fa accelerare assai la corsa. Si gira pronto a tutto e si trova di fronte una anaconda nera alta e grossa quasi come lui, che fra l’altro ha già prelevato dalla prima fila una sedia da spaccargli in testa.

Quel tipo è Joe Pace. Anzi quel tipo è un uomo chiamato Joe Pace, 26 anni, al dito l’anello di campione Nba 1978 coi Washington Bullets, svenduto anni dopo assieme ad altri trofei per affrontare le vicende di una vita che sarà assai più dura che lieta.

E’ l’americano della Scavolini per la nuova stagione assieme a Mike Russell, bravo ma dall’anima infida, tentatore e rimestatore di droga. Quella di Joe è una storia da “Santo bevitore”.

Nessuno come lui fra gli americani arrivati a Pesaro. Se fa freddo – e al vecchio Palas di viale Partigiani il gelo è di casa – si allena con mani in tasca; se sta per piovere decide di non fare la seduta atletica; sparisce la sera prima dello spareggio salvezza a Milano contro Mestre, noi e la polizia lo cerchiamo nella notte, a un certo punto il Commissariato di Fano riferisce che verso le quattro è stato avvistato da qualche parte un “soggetto compatibile”.

Riappare la mattina dopo con una sbornia da smaltire durante il viaggio fino a Milano. Scuote il testone ridendo di noi poveri coglioni che crediamo alla storiella di una grande città come Pompei sepolta con tutti i suoi abitanti dalla lava del Vesuvio. When? Duemila anni fa. Before of United States of America? Oh, fuck you, it’s impossible! Piuttosto è più disposto a credere che la terra sia piatta.

Con l’arrivo dell’inverno si compra un meraviglioso cappotto di cammello lungo fino ai piedi, roba da signori. Sussiegoso, dritto e sorridente sta all’angolo fra via Rossini e piazza del Popolo come un nuovo Rockefeller a farsi ammirare, con mezza città che gli passa davanti, gli accarezza il cappotto e gli fa i complimenti.

Lui ringrazia, stringe mani a decine, invita a lisciare il pelo, perfino a farsi abbracciare. Il sorriso è quello di chi si sta prendendo una incredibile rivincita contro la sorte. Forse uno dei punti più alti della sua vita. Ma quelli, si sa, non durano mai e gli arriva subito il peggio.

Cade come un pollo nella rete della droga – compare e complice l’infido Russell – finisce in un giro completamente sbagliato e alla fine finisce anche in overdose.

Succede una sera, con la voce che rimbalza e corre in un baleno per la città, Joe è in rianimazione all’ospedale, pare sia molto grave, potrebbe anche morire. Pellegrinaggio commosso e silenzioso davanti alla porta sbarrata del Reparto Rianimazione dell’Ospedale “San Salvatore”. Bisbigli, sospiri, io l’avevo detto, io lo sapevo che finiva così, forse qualche preghiera, giornalisti e cronisti in fase di riscaldamento, folla che va ammassandosi. L’attesa si allunga, i brutti presagi crescono, l’atmosfera volge al dramma.

Finalmente la porta si apre, avete presente una di quelle porte all’antica, due ante di legno con la maniglia d’ottone, roba casalinga.

Esce il primario, il professor Di Bari, camice bianco aperto, aria professionale, calma e tranquillità di colui che sa. E’ lì per parlare a quel popolo in ansia e in attesa spasmodiche. Ecco che sta per cominciare, che dirà del nostro Joe? «Homo longus rare sapiens...», dice il primario Di Bari. Bocche aperte, occhi spalancati, orecchie tese, penne dei cronisti bloccate a mezz’aria, e continua «... sed sapiens sapientissimus».

La gente capisce solo che non sta capendo niente, ma nessuno si azzarda a fiatare. Ancora qualche secondo interminabile: «Bene – prosegue Di Bari –. Questo non è il caso: questo qui ha una mazzocca grossa così e vuota ma si salverà». Te Deum, evviva, osanna, abbracci, ma chi se ne frega del latino e dell’homo sapiens, l’importante è che Joe resti ancora con noi. Magari per tornare a fare le coglionate una dietro l’altra. Cosa che gli riesce perfettamente e come a pochi altri al mondo.

Salvo però un piccolo fatto assolutamente fondamentale. Che qui siamo di fronte ad un uomo chiamato Joe Pace. E’ uno di quelli che quando nei film western appaiono in fondo allo stradone vestiti di nero e con i pollici appoggiati alle fondine, sai per certo che sta per succedere un macello. Lui è fatto proprio così.

Quando esce dagli spogliatoi deciso a giocare, allora nessuno lo farà come lui.  E’ una batteria antiaerea piazzata attorno al tuo canestro: chi solo si azzarda a tirare si ritrova il pallone in faccia o strappatogli addirittura dalle mani. In attacco si muove come Nurejev fra i cristalli e mai che ne rompa uno.

Flessuoso, sodo e avvolgente proprio come un’anaconda amazzonica, fa della schiacciata e della stoppata il Mosè, la Gioconda e la Fornarina. Tutti insieme.

Nessuno va su da terra come lui senza la spinta dei motori. Nei bar pesaresi raccontano di un tiro stoppato proprio sull’angolino alto del tabellone. E’ vero, chiarendo però che è arrivato solo fin lì perché non c’era bisogno di andare più su. Può arrivare ai travi d’acciaio del vecchio Palas. Sempre che ne abbia voglia.

Anni fa giunse notizia che era diventato un “barbone”, un “homeless” ridotto a vivere sotto i ponti, proprio roba da “Santo bevitore”. Secondo il calendario normale tutto questo av viene nella stagione 1979/80. Roba di quasi quarant’anni fa. Se ne parlate in giro l’anno e la stagione non se li ricorderà nessuno. Però, dopo un po’, vi diranno ah, sì, erano i tempi di Joe Pace, Madonna che roba! E gli brilleranno ancora gli occhi.