
Le doppiette furono denunciate dalla polizia provinciale (. foto di repertorio
Si è concluso con un’assoluzione il processo a carico di due cacciatori ravennati accusati di bracconaggio e utilizzo di richiami proibiti nelle zone umide di Sant’Alberto, parte delle Valli di Comacchio. La Procura, rappresentata dal vice procuratore onorario Adolfo Fabiani, aveva chiesto per ciascuno sei mesi di arresto e 300 euro di multa. Tuttavia, la difesa, guidata dall’avvocato Carlo Benini, ha dimostrato che la polizia provinciale aveva commesso più errori nella valutazione del caso.
L’accusa principale riguardava l’abbattimento di alzavole e germani in un’area che, secondo la polizia provinciale, sarebbe stata protetta e quindi interdetta alla caccia. La difesa ha però sostenuto che i due si trovavano all’interno di un’azienda faunistico-venatoria, dove l’attività delle venatoria è consentita. Il proprietario della valle affittava regolarmente le “botti” per la caccia e non è mai stato indagato, segno che anche per lui l’area era lecita. Se si fosse trattato davvero di una zona vietata, l’accusa avrebbe dovuto riguardare anche lui. Inoltre, la polizia provinciale sosteneva che vi fossero tabelle segnaletiche che indicavano il divieto di caccia, ma la difesa ha contestato questa affermazione, sostenendo che tali cartelli non esistevano. Un altro punto dell’accusa riguardava l’uso di richiami acustici vietati, dispositivi che imitano il canto dei volatili al fine di farli fermare in quell’area. Gli agenti affermavano di averli sentiti, ma per la difesa il suono poteva provenire da altri cacciatori, dato che in valle le distanze sono ingannevoli e un rumore a 200 metri può sembrare a dieci. Inoltre, non furono trovate prove concrete dell’uso di richiami. La polizia provinciale dichiarò che uno dei due cacciatori era uscito dalla botte nel tentativo di nascondere i dispositivi o lanciarli in acqua, ma la difesa ha smentito anche questo punto, evidenziando che il controllo dell’area fu approssimativo. La ricerca dei richiami non fu approfondita perché gli agenti ritenevano che il fondale fosse melmoso e impraticabile per un sommozzatore, che pure era stato chiamato sul posto. Tuttavia, secondo la difesa, si trattava di un’ulteriore valutazione errata: l’acqua era limpida, profonda appena 30 centimetri e con un fondo solido, quindi un’eventuale verifica sarebbe stata possibile.
Infine, la difesa ha chiarito che uno dei due uomini non aveva armi e si trovava lì solo per assistere. Il fatto che fosse vestito da caccia non provava la sua partecipazione all’attività venatoria. Inoltre, lo smacco patito per quell’episodio lo avevano portato ad abbandonare l’attività venatoria. Alla luce di tutte queste incongruenze, il giudice Tommaso Peone ha assolto entrambi gli imputati dai capi d’imputazione per "perché il fatto non sussiste" e "perché il fatto non costituisce reato".
Lorenzo Priviato