Negozi Ravenna, addio alla storica Cappelleria Manzoni

Ieri Roberto ha chiuso la storica bottega in via Gordini, che aveva rilevato nel 1973. "Vedo un declassamento dei valori e dei princìpi"

Roberto Manzoni nell’ultimo giorno di lavoro

Roberto Manzoni nell’ultimo giorno di lavoro

Ravenna, 10 febbraio 2019 - "E' ora di riposarmi", dice Roberto Manzoni chiudendo la serranda dello storico negozio di via Gordini. Manzoni, cavaliere al merito della Repubblica, è l’uomo che, è il caso di dirlo, per mezzo secolo ha ‘sussurrato ai cappelli’, proponendoli ai clienti come opere d’arte oltre che come copricapo. Ma è anche il dirigente sindacale che per trent’anni ha cercato di migliorare la qualità della categoria sapendo di migliorare la qualità della città, l’imprenditore che ha conosciuto la Ravenna opulenta degli anni dei Ferruzzi e di Raul Gardini e che ora assiste al ‘declino di ogni valore’, si è appena ritirato dal fronte. 

Sento un tono demoralizzato! «L’apparenza sta soppiantando la sostanza, anche il fronte della moda sta subendo questo declassamento dei valori e dei principi. Dico solo una banalità: per me la persona che entrava nel negozio è sempre stata il ‘signor cliente’, oggi ci sono commesse che ti affrontano dicendo ‘tu cosa vuoi?’ Io in negozio mi sono sempre presentato in giacca e cravatta e ho impegnato ogni giorno ad apprendere, a migliorare la mia conoscenza. Non mi sembra che sia più così».

Signorilità, cultura, fede nei principi: quanto ha inciso in lei l’ambiente familiare? «Certo che avere un padre, si chiamava Costante, lavoratore alla Cofar, comunista, sindacalista, consigliere comunale, poi assessore provinciale, quindi chiamato a Roma alla Lega delle Cooperative ha senz’altro influito, ma io ho sempre fatto di testa mia, ad esempio dopo le medie non ho più voluto studiare… Così ho fatto il meccanico da Zanzani, poi l’impiegato alla Coop e siccome ero sempre alla ricerca di qualcosa di meglio, capitai nel negozio di Gondolini, l’aveva aperto nel 1934».

Le sarebbe piaciuto fare il commesso? «Non era il mio obiettivo, ma in poco tempo il clima del negozio, i cappelli, l’abbigliamento, le scarpe fatte a mano, mi affascinarono. E i discorsi che i clienti, tutti professionisti, medici, avvocati, facevano con Santino, stimolarono la voglia di sapere. Così cominciai ad acquistare libri, a leggere… e non ho più smesso. Era il 1970, avevo 17 anni».

E nel 1973 quel negozio lo ha acquistato! «Sì, il 12 febbraio, ero ancora minorenne. Gondolini era morto a dicembre, già avevamo parlato del mio possibile subentro e la sorella accettò che io pagassi un po’ per volta, in cinque anni. Mi aiutò anche mia zia… All’epoca a Ravenna i negozi di abbigliamento di qualità erano ben pochi: Bubani, Matteucci, Gondolini… Poi negli anni Ottanta l’attenzione si spostò su Milano Marittima, lì fu un fiorire di nuovi esercizi, di boutique».

Ha sempre avuto una clientela di alto livello. «Le dicevo di medici, avvocati, e poi attori in scena all’Alighieri, funzionari di banca, manager dell’industria, pensi a cosa si muoveva a Ravenna nel decennio di Gardini. Raul e altri erano fra i miei clienti. Ricordo che un giorno entrò in negozio il grande direttore d’orchestra Rostropovich: si vestì qui perché gli era andato smarrito il bagaglio. Con il crack Ferruzzi in un anno ho perso un fatturato di cento milioni di lire».

Il suo punto di forza sono stati i cappelli. «Oh sì. Il cappello è un’opera d’arte, dietro c’è un mondo meraviglioso, anche di grande umanità, una simbologia, insomma una cultura di cui sono state interpreti le case produttrici italiane, le migliori nel mondo. Solo una piccolissima produzione è inglese, irlandese e australiana. Ho scoperto tutto questo perché dalla fine degli anni 70 ho fatto anche l’agente di commercio per la Tesi, famosa fabbrica di cappelli di Firenze».

Non bastava il negozio? «No, perché volevo scoprire ciò che stava dietro al cappello. Bisogna conoscere sempre di più. Per vent’anni ho girato in sette regioni, sono nate anche grandi amicizie. È stato possibile perché uno dei miei due fratelli, Giancarlo, l’altro è Franco, trent’anni fa cominciò a darmi una mano».

Il cappello è ancora diffuso? «Sta riprendendo un po’ piede, ma è ormai un prodotto di nicchia. Il declino cominciò negli anni 80 quando per salire in auto occorreva togliersi il cappello. L’ultima vettura con la cappelliera fu la Fulvia. Voglio però dire che nel 2000 sono stato il primo a sfruttare l’e-commerce per i cappelli: così ne ho venduti in Europa, Usa, Corea, Cina, Giappone, Australia….».

Lei poi ne ha una collezione privata… «Anche di cravatte… Ho una feluca di Vittorio Emanuele III, siamo ai primi del '900, una paglietta di Borsalino, bombette, cilindri da cerimonia, i Panama, il cappello a tre punte per i medici di un secolo e passa fa e tanto altro».