Così le Usca curano un’intera provincia

Una mattina con i medici che visitano i malati a domicilio: "La paura? Abbiamo rodato i meccanismi, lavoriamo in sicurezza"

Migration

"Ci sono arrivate anche le giacche, magari possiamo pure fare le multe". Erion Fejza scherza e, sorridendo sotto la mascherina, alza la lampo del giaccone. I tempi del caos, quando i dispositivi di sicurezza erano contati, sono alle spalle. E in quasi dieci mesi di lavoro le Usca ravennati sono diventate un meccanismo rodato, capace di coprire tutto il territorio per combattere il Covid casa per casa.

Siamo a Russi, alla Casa della Salute. In poche stanze arredate all’osso c’è il quartier generale delle Unità speciali di continuità assistenziale di Ravenna: l’articolazione provinciale creata a marzo dalla Regione per seguire le persone affette da Covid non ricoverate. Trentuno medici, di cui dieci dislocati nelle Cra dove sono presenti pazienti positivi e focolai. Gli altri 21 si ritrovano, a turni, qui. Ed è da qui che tengono sotto controllo i pazienti di un’intera provincia. Il primo turno si ritrova alle otto, pronto a una giornata lavorativa di sei ore che quasi sempre dureranno di più. Alle 14 entrerà il secondo turno, un’altra squadra di cinque persone, pronto ad andare avanti fino alle 20. In tutto le squadre sono quattro, si distribuiscono turni e giornate. Due medici sono sempre al telefono, per raccogliere le segnalazioni su quattro cellulari privati: solo medici di base, guardie mediche e 118 parlano su quelle linee.

Ventuno medici in auto per un’intera provincia. "Lo trovo un numero adeguato – spiega il coordinatore, Erion Fejza –. Certo, se fossimo qualcuno in più potremmo fare qualche visita in più. Ma non siamo in difficoltà". Certo i malati sono aumentati e, rispetto all’estate, ora le Usca seguono quasi solo casi acclarati Covid. Il dottor Fejza ha 32 anni e coordina le Usca ravennati, fatte di suoi coetanei: età media 33-34 anni. Quando 15 anni fa si trasferì a Bologna per studiare Medicina, non solo non c’era il Covid ma non esistevano nemmeno le Usca.

I medici raccolgono le segnalazioni, prendono i dati dei pazienti, effettuano una breve anamnesi e poi contattano i malati o potenziali tali. E lì indagano sulla loro situazione. Se c’è un saturimetro, bene. Ma non tutte le famiglie hanno questo strumento a casa. E così, se necessario, si passa ai test. Uno dei più gettonati è quello di Roth: si chiede al paziente, dall’altra parte del telefono, di fare un respiro profondo e iniziare a contare ad alta voce fino a 30 senza mai prendere fiato. Se dopo pochi secondi deve fermarsi, è un campanello. Chiaramente, spiegano i medici, "nessun test telefonico ci può fornire informazioni esatte: con quelle raccolte sta poi alle nostre valutazioni decidere se intervenire direttamente".

Dal primo giorno di attività delle Usca, il 28 marzo, sono arrivate circa 2.800 segnalazioni. I pazienti visti a domicilio sono stati 1.500, altri mille quelli seguiti nelle Cra. Il monitoraggio varia da caso a caso: c’è chi viene contattato tutti i giorni, chi ogni qualche giorno, chi richiede una, cinque visite a domicilio o zero. Mediamente, si fanno una decina di visite a giornata. Ma è una media poco significativa, perché ogni giornata e ogni turno hanno una storia a sé.

I medici passano al telefono circa due ore, poi è il momento di salire in macchina. Portano con loro i contenitori dell’abbigliamento usa e getta. In base alle telefonate hanno scelto le case da visitare. Dentro spesso c’è un anziano, ma anche cinquantenni, quarantenni o pure giovanissimi. Fejza farà la prima tappa proprio a Russi. Con lui in macchina c’è il dottor Francesco Neri, 33 anni. Come detto, l’età media è quella. Un gruppo di quattro squadre, compatto e unito, agile, con un ruolo inedito e responsabilità molto grandi, a cui si sono aggiunte le vaccinazioni nelle residenze per anziani. La pressione c’è: "Tutti i giorni ci troviamo a dover scegliere se lasciare a casa o mandare in ospedale il nostro paziente. E i parenti ci guardano con gli occhi sbarrati", racconta Neri. Nessuno rifiuta di essere seguito dalle Usca: per chi è isolato in casa, consapevole di essere malato, ricevere la visita e il contatto di un medico è importante anche sotto il profilo psicologico. Perché la paura, soprattutto per chi presenta i sintomi più pesanti, è presente: "Capita di parlare con pazienti che ti dicono che non riuscirebbero a spegnere una candela. È impressionante", riflette Neri.

E la paura per se stessi? "All’inizio bisognava capire come organizzarsi, eravamo un po’ spaventati. Molti si preoccupavano per la salute dei propri cari. Poi, rodando i meccanismi, si lavora in sicurezza", spiega Fejza. I meccanismi coinvolgono anche i colleghi della medicina del territorio e del 118: "La cosa bella di questi mesi – racconta Neri – è che tutti stiamo andando nella stessa direzione. Anche chi non rispondeva nel weekend ora c’è sempre. Si è creato un bel rapporto, ci confrontiamo".

L’utilitaria si ferma davanti alla casa del primo paziente di giornata. I medici scendono, aprono il bagagliaio. Solo Neri si veste, assistito da Fejza: la tuta monouso, i copriscarpe, due paia di guanti. "Ogni tanto ci hanno preso per imbianchini, meglio così", scherzano. Neri entra, Fejza lo aspetta fuori: lo aiuterà a svestirsi, poi l’abbigliamento verrà buttato. La fermata successiva si daranno il cambio. L’auto riparte, destinazione Lido Adriano. Poi, altre due fermate a Ravenna. A inseguire il virus, casa per casa.

Riccardo Rimondi