
Sono stati poco meno di duecento gli edifici faentini danneggiati in maniera più o meno grave dall’alluvione. I tecnici hanno terminato da alcuni giorni il monitoraggio compiuto in tutte le parti della città toccate dall’alluvione – la porzione nord-orientale del centro storico, il Borgo, il Borgotto, il quartiere di via Lapi e quello di via Lesi – arrivando a stendere quella che è a tutti gli effetti una radiografia del tessuto urbano faentino all’indomani delle inondazioni. Dei circa duecento edifici danneggiati, meno di dieci sono completamente inagibili – concentrati soprattutto fra via Cimatti e via D’Azeglio e nel quartiere compreso fra via Lapi e via Renaccio – in qualche caso perché crollati, come accaduto in via Verità, appena oltre il Ponte Rosso. Nella stragrande maggioranza dei casi le inagibilità sono concentrate in porzioni specifiche degli immobili: una cantina, una scala, una sala al piano terra. "La situazione non è drammatica ma è in evoluzione – spiega l’assessore all’Urbanistica Luca Ortolani –. Cedimenti, vuoti e voragini si possono presentare anche a distanza di vari giorni".
A preoccupare di più è la possibilità che sotto alcuni edifici possa letteralmente essere venuta a mancare la terra, che potrebbe essere stata dilavata via dall’acqua lasciando interi immobili in piedi unicamente sopra uno strato di ghiaia, facilitando i crolli di quelle porzioni che non sono poggiate sulle fondamenta. Se da un lato l’attenzione rimane alta in quello che può essere definito il secondo capitolo della reazione all’alluvione, e cioè il monitoraggio dello stato di salute degli edifici, in alcune porzioni della città si è fermi alla prima fase alluvionale: da molte cantine del centro storico deve ad esempio ancora essere risucchiata via l’acqua. La procedura in alcuni casi non è stata portata a termine proprio in considerazione della stabilità delle cantine adiacenti.
L’alluvione ha portato alla luce l’efficienza altalenante che ha caratterizzato gli scorsi decenni dell’edilizia italiana: i palazzi che hanno subito i maggiori danni sono infatti quelli risalenti all’immediato dopoguerra, quando l’Italia era una nazione distrutta dal conflitto mondiale e sentiva la necessità di risollevarsi in fretta dalle macerie, senza troppa attenzione alle tecniche costruttive. Al contrario, gli edifici che hanno visto la luce al tempo del Piano Fanfani – le cosiddette Ina Casa, realizzate fra il ‘49 e il ‘53 – non hanno presentato danni significativi: quelli che allora erano edifici all’avanguardia si sono confermati all’altezza anche di una situazione emergenziale come quella innescata dall’alluvione. Alcuni, posti in posizioni piuttosto elevate, non sono neppure stati toccati dagli allagamenti, come quelli ad esempio del quartiere che circonda piazza Bologna. Del resto l’altezza dell’edificio e della zona in cui si trova fanno la differenza in un’alluvione, e così agli edifici residenziali di piazza Bologna è andata meglio che a quelli della non lontana via Lesi – sempre in Borgo – trasformata dall’alluvione in un quartiere semisommerso proprio in virtù della sua vicinanza al fiume e del basso livello del suolo.
Nel frattempo da ieri il genio militare ha iniziato a lavorare sull’argine di via Renaccio, lì dove c’è stato il primo crollo che ha dato il via all’allagamento del centro: quello del muretto che correva lungo il Lamone.
Filippo Donati