
Avrebbero voluto salvare la figlia, in Italia dal 2018, dalla loro stessa cultura, ma con metodi violenti. Padre e matrigna indiani sono accusati di anni di maltrattamenti: un caso Saman, ma al contrario
Ravenna, 18 giugno 2025 – È un processo che sembra capovolgere il copione già tristemente noto di Saman Abbas, ma che in realtà ne ricalca le dinamiche più profonde: il controllo, il potere, la cultura imposta come gabbia. Questa volta, però, non si parla di una famiglia che tenta di impedire l’occidentalizzazione di una figlia, bensì di una famiglia che — proprio in nome di un ideale di vita all’occidentale — avrebbe messo in atto anni di violenze per allontanarla da connazionali indiani e pakistani, ritenuti pericolosi.
Alla sbarra, davanti al tribunale collegiale di Ravenna presieduto da Cecilia Calandra, con a latere i giudici Cristiano Coiro e Piervittorio Farinella, siedono un uomo di 43 anni e sua moglie, la matrigna della giovane, di 40. Entrambi di origine indiana, sono accusati di maltrattamenti in famiglia aggravati e continuati: botte, minacce, chiusura in casa, imposizione di stili di vita — secondo la procura — in contrasto con ogni principio di libertà individuale.
Secondo il racconto della ragazza, ora maggiorenne, le violenze sarebbero iniziate quando aveva appena 12 anni, nel 2018, anno in cui il padre la portò in Italia insieme a uno dei fratelli. Lui stesso, affascinato dalla cultura europea, aveva scelto di lasciare l’India, dove “non voleva più vivere”.
Eppure, per la figlia, l’approdo in Occidente non avrebbe significato liberazione, ma un nuovo recinto. Di tre fratelli, racconta, solo lei era vittima di abusi: “Perché sono femmina, nella nostra cultura è così”. La sua testimonianza è al centro dell’impianto accusatorio della Pm Angela Scorza. Col passare degli anni, i comportamenti dei genitori sarebbero diventati sempre più coercitivi. Le avrebbero negato il cellulare, impedito amicizie con coetanei maschi — soprattutto indiani o pakistani —, costretta a rinunciare alla scuola superiore per lavorare. Quando il lavoro la impegnava troppo, le avrebbero imposto di occuparsi solo dei fratelli e delle faccende di casa. Nessuna questione religiosa dietro questi divieti: entrambi i genitori sono induisti, e la figlia stessa ha dichiarato che non c’era differenza tra induisti e musulmani, ma solo un rifiuto verso le “etnie sbagliate”.
Eppure, è proprio tra giovani connazionali che lei trovava maggiore comprensione: parlavano la stessa lingua, condividevano il medesimo retroterra culturale. Nonostante i genitori la volessero “italiana”, non le lasciavano margini per scegliere. Lei desiderava diventare parrucchiera; loro volevano che lavorasse in un ristorante. “Uscivo solo per andare a scuola, poi al lavoro, e infine alla scuola guida”, ha raccontato. In uno degli episodi contestati, il padre l’avrebbe percossa con un ramo per via dei voti bassi. In un’altra occasione, l’avrebbe colpita perché aveva invitato un amico a casa.
Quando iniziò a frequentare un centro di formazione e conobbe un ragazzo indiano, la obbligarono a tornare in India, dove restò per 15 mesi: il viaggio avrebbe dovuto durare meno, ma il Covid la bloccò là. Gravi anche le accuse sul piano delle minacce: “Ti faccio fare la fine di Saman”, le avrebbe urlato il padre impugnando una mazza da cricket, dopo aver scoperto una conversazione telefonica con un ragazzo pakistano. In un altro episodio, la madre l’avrebbe spinta contro i fornelli, ma l’accusa è stata smentita da un amico che l’accompagnò al pronto soccorso: secondo il referto, la giovane si sarebbe ustionata lavorando in una piadineria.
È stata proprio quella rete di amicizie esterne, coltivate di nascosto, a salvarla. Si è confidata con un amico, che l’ha messa in contatto con una responsabile di un centro rifugiati. Da lì il collegamento con i carabinieri, quindi il contatto con l’associazione Linea Rosa. Dal 2023, la giovane vive in una struttura protetta fuori Ravenna. Non vede più i genitori, anche se questi — tramite amici o contatti trovati sui social — avrebbero più volte cercato di riallacciare i rapporti. Ora è parte civile nel processo, assistita dall’avvocata Monica Miserocchi. I genitori sono difesi dall’avvocata Lisa Venturi e parleranno alla prossima udienza, prevista per inizio luglio. Sarà allora che si capirà se questa storia è davvero “un caso Saman al contrario”, o solo l’ennesima declinazione della stessa tragedia.