Il Lupin nostrano ‘artigiano’ d’altri tempi

Imbottigliato nell’infinita colonna autostradale che procede a innesti di prima e seconda, accendo la radio. È una sequela di notizie negative, un frullato di catastrofi più o meno annunciate. I primi morti per il virus West Nile, i ghiacciai che svaporano, i fiumi ridotti a rigagnoli, il cuneo salino in avanzamento, i raccolti compromessi dalla siccità, l’Italia che brucia dalla Versilia a Trieste, la pandemia continua, l’incomprensibile crisi di governo, gli interessi bottegai anteposti agli interessi del Paese, le pirobazie partitiche in luogo della politica nella piena e nobile accezione del termine, la guerra che continua. Mi viene a mente la frase in dialetto con cui una mia vicina commenta lo stillicidio di notizie: "S’è l, la fé d’è mónd?" e non riesco a darle torto.

Vago col pensiero tra i disastri nella ricerca di un appiglio, qualcosa da opporre alle troppe macerie, e per i misteriosi e spesso illogici percorsi della mente affiora l’Arsenio Lupin ravennate. So che quel che vado a scrivere non piacerà alle ormai decine di vittime del nostro ladro gentiluomo, ma abbiano la pazienza di seguirmi. Ricordo, credo negli anni ’60, il tentativo di furto perpetrato da una banda di ladri ai danni d’una banca. Lo studio delle caratteristiche dell’edificio, i sopralluoghi lungo i cunicoli fognari, lo scavo di una galleria fino al caveau. Mesi di lavoro, apparizioni di malattie potrei dire professionali quali reumatismi e bronchiti, il successo finale ma anche il repentino arresto. E tutto quando avrebbero potuto risolvere la cosa per le spicce, facendo ricorso alla violenza: armi in pugno, irrompere nella banca, prendere qualche ostaggio, fuggire con la cassa. Ecco, il nostro Lupin – che ormai conta più di settanta colpi – si muove di notte, armato di piede di porco e guanti, vestito di nero alla Diabolik, e saluta irridente persino le telecamere di sorveglianza, spostando sul piano della sfida il crimine appena consumato. Insomma, come il mio Gabulini narrato in ‘Fiordicotone’: ‘ladro sì, imbroglione pure, contrabbandiere certo, ma con un’etica umana che rispettava’. Il nostro Lupin potrebbe far ricorso alla violenza spiccia dei balordi – quella che ogni tanto vede il morto -, brandire un’arma qualsiasi e concludere, e invece no. Potrei definirlo un artigiano d’altri tempi, quando gli audaci colpi dei soliti ignoti finivano in una scodella di fagioli al sugo.

Paolo Casadio