"In sedia a rotelle, non è un pusher Marijuana unico rimedio al dolore"

Assolto dall’accusa di spaccio e detenzione un 40enne tetraplegico, trovato un anno fa con 70 grammi di sostanza e una coltivazione di 15 piante. "La terapia del dolore tradizionale non è sufficiente"

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Era stato arrestato nel luglio 2021 per il possesso e la coltivazione di stupefacenti. Ma quei 70 grammi di marijuana, unitamente a 17 piante di cannabis, trovati dalla Squadra mobile nella sua abitazione di Alfonsine, erano le uniche sostanze efficaci per la sua terapia del dolore, in quanto i medicinali prescritti dal servizio sanitario nazionale, tra cui la cannabis sativa, non erano più sufficienti a lenire le sue sofferenze. Da qui è arrivata l’assoluzione del Gip Corrado Schiaretti, sebbene per particolare tenuità del fatto.

Quella di Lorenzo Ravaglia, 40enne di Ravenna, è una storia simile a tante altre, dove l’assunzione di marijuana non rappresenta una forma di sballo, bensì una necessità. Che è tale per la giustizia, ma non ancora per il legislatore. Costretto alla sedia a rotelle, da anni Lorenzo soffre di tetraplegia spastica, motivo di deficit funzionale totale e di dolore cronico da contrattura muscolare e di dolore neuropatico costante. Per questo dall’estate 2019 aveva deciso di coltivare cannabis a scopo di uso terapeutico, ammettendo di fumare dai 5 ai 10 grammi di marijuana al giorno. La piantagione, con tanto di sistema di irrigazione, gli permetteva di garantirsi il consumo annuale, così da evitare di rifornirsi presso gli spacciatori. Poi l’arresto, innescato da una segnalazione anonima, mandò tutto all’aria. I suoi avvocati, Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti, al processo in abbreviato hanno prodotto la consulenza di un medico che accertava come la terapia medica convenzionale non fosse più idonea a garantire al paziente una qualità di vita dignitosa.

Il giudice, da un lato ha riconosciuto la correttezza dell’operato della polizia, poiché 70 grammi più 17 piante in grado di produrre cinque chili di marijuana in un caso normale configurano lo spaccio. Nel caso di Lorenzo Ravaglia, invece, lo ha ritenuto "compatibile con un consumo personale" e che la quantità "fosse finalizzata a garantire una scorta personale". Tanto che anche sacchetti di cellophane, bilancini e apparecchio per il confezionamento, inizialmente sequestrati, gli sono stati restituiti. È evidente, osserva il giudice, che Ravaglia, "costretto sulla sedia a rotelle e limitato nei suoi spostamenti", non facesse parte di alcun giro si spaccio, circostanza ritenuta "inverosimile" anche " alla luce delle sue precarie condizioni di salute". L’unico aspetto che ha dato rilevanza penale alla vicenda, portando a una formula assolutoria non piena, la si deve al fatto che il 40enne ammise "che potesse capitare che quando vengono a cena gli amici, e mi si preparava una sigaretta, qualcuno poteva dare un tiro".

L’epilogo non basta, tuttavia, a cancellare l’amarezza patita: "Sia per i danni morali, un anno nella macchina del processo penale con lo stigma sociale della criminalizzazione – spiega Ravaglia –, sia per quelli materiali: la mia piantagione è stata distrutta, non avere per un anno sostanza sufficiente per la terapia del dolore ha significato la nercessità di dovermi procurare la marijuana per altre vie, quelle sì illegali". Riguardo all’esito processuale, spiega, "ero certo del fatto che sarebbe stato questo. La legge che regola gli stupefacenti è ancora quella del ’90, ma la giurisprudenza sta seguendo il solco tracciato dalla Corte di Cassazione nel 2014. Da allora ci sono state molte assoluzioni per casi come il mio. Ciò che continua a non cambiare è la legislazione".

Lorenzo Priviato