La politica, la musica, la pittura, la folgorazione sulla via di Camaldoli, la docenza nelle scuole d’arte, la passione per Dante, intrecci paralleli, ma anche convergenti e carsici che hanno modellato, fin dall’adolescenza, la vita di Daniele Albatici: l’incontro con Paolo Vichi e il Partito comunista, la segreteria della sezione di via Aquileia, la laurea all’Accademia d’arte a Bologna, l’incontro con Marco Bravura a Venezia, i disegni dal vivo in piazza San Marco e alla Tomba di Dante, lavori manuali e crisi esistenziale politico-religiosa, le dimissioni dal partito, il recupero di un percorso di vita meno accidentato con l’insegnamento al Liceo Artistico fino alla pensione e con l’impegno musicale abbinato alla cultura, in particolare all’opera di Dante di cui ha musicato vari canti, cui si aggiunge la produzione di duecento canzoni. E a chiudere il cerchio la pittura, virata dal paesaggio ai soggetti religiosi e danteschi: tante le mostre, altrettanto numerosi i suoi quadri andati ad arricchire il patrimonio artistico di molte chiese.
Albatici, che insolito cognome!
"Già, inventato dall’ufficiale dell’anagrafe di Ravenna nel 1880 quando registrò mio nonno che era stato portato al brefotrofio. Chissà come era saltato fuori Albatici. Che poi è il cognome materno, perché mio babbo era un personaggio che piaceva alle donne, aveva un matrimonio alle spalle e così mia mamma fece la scelta di cancellarlo. E diventai figlio di N.N. All’epoca era sui documenti!"
Ma lei ha conosciuto il babbo?
"Poco. Si chiamava Ugo ed era stato paracadutista in Africa, aveva partecipato alla battaglia per El Alamein, poi fu fatto prigioniero. Al rientro si affermò come musicista, era un chitarrista, organizzò un’orchestra in cui mosse i primi passi Pino Novelli, che poi è stato mio insegnante. Fu mio padre, che da prigioniero aveva suonato per le truppe americane, a proporre il jazz nel nostro Paese".
Quindi è cresciuto soprattutto con la mamma…
"Si chiamava Bianca ed era operaia alla Callegari. Sono cresciuto in via Trieste nei sei palazzi a cinque piani costruiti davanti alla Cmc. Nel cortile ci trovavamo in 5060 bambini, abitavamo tutti lì, non c’era il problema della scarsità delle nascite!"
Come si è sviluppata la sua vena pittorica?
"Mia madre mi ha sempre raccontato che quando avevo meno di un anno scarabocchiavo sui fogli, un’attitudine e un’abilità che sono cresciute alle elementari e alle medie. Che tempi, quelli! Dopo l’errata scelta di ragioneria mi iscrissi all’Istituto d’arte per il Mosaico, dove incontrai un grande insegnante: Francesco Verlicchi".
Cosa accadde alle medie?
"Erano i primi anni 60, avevo 12 anni, la media era la San Pier Damiano, il quartiere era quello di via Gulli. Ho imparato presto a farmi rispettare, anche con la forza. Ho dovuto farlo: la mia situazione familiare di bambino senza babbo, rara all’epoca, era raccolta dai compagni come spunto per ogni azione che oggi diremmo di bullismo. Le cose si risolvevano così, allora!"
Era il tempo dei Beatles…
"Rimasi fulminato, era il ‘63. E parimenti ero colpito dall’astrattismo in pittura, ricordo le lunghe discussioni con Verlicchi, a scuola. Con alcuni amici misi su un complesso, The Dragster, avevo 16 anni. Mi ero comperato la prima chitarra andando a lavorare in estate da un cementista".
Poi arrivò il diploma…
"Nel ‘69, e subito dopo con ventimila lire in tasca e in autostop andai a Parigi e ad Amsterdam a visitare musei, mesi splendidi, una finestra sul mondo, contatti con ragazzi in fuga dalle dittature portoghese e spagnola, con gruppi beatnik, la guerra in Vietnam. Al ritorno mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti a Bologna, dove mi laureai nel ‘73 e contemporaneamente entrai prima nella Fgci e poi nel Pci grazie all’amicizia con Paolo Vichi, reduce da tempo dall’esperienza sessantottina della comune".
Nel Pci che ruolo ebbe?
"Segretario della sezione di via Aquileia. Ma soprattutto eravamo giovani idealisti, ricordo le discussioni con Paolo sul dissenso in Unione Sovietica. Pensi che con Paolo avviammo la produzione di magliette serigrafate con il ritratto di Marx e la scritta ‘Proletari di tutto il mondo, unitevi’, venivano vendute alle feste de l’Unità in Italia e con il ricavato il partito comprò un nuovo macchinario di ciclostile".
E la musica?
"L’avevo accantonata, ero impegnato sul fronte del partito. Lavorai per un anno come disegnatore alla Dam progetti, poi nel ‘76 la crisi: cominciai a contestare il Pci, stracciai la tessera e me ne andai a Venezia da Marco Bravura, mio compagno all’ Istituto d’Arte. Cominciai a disegnare dal vivo, i monumenti. I turisti comperavano…"
Crisi politica, ideologica?
"Esistenziale, capii che mi mancava qualcosa e andai a Camaldoli. E lì ci fu, diciamo, la conversione, l’incontro con la fede. Rientrai a Ravenna, feci vari lavori: muratore, idraulico, bracciante e soprattutto facevo disegni davanti alla tomba di Dante. Soprattutto ritratti… La pittura cominciava ad avere un ruolo importante per me".
Ma lei avrebbe potuto insegnare!
"Certo, ma il momento arrivò nel 1984: prima supplenze, poi quattro anni all’Istituto d’Arte e infine al Liceo Artistico fino al 2009. Ho insegnato scultura. Il paradosso è che di lì a poco smisi di dipingere".
Quando ha ripreso?
"Con la pensione, nel 2009. Ma tenga presente che se nel ‘90 avevo abbandonato la pittura, nel ‘96 avevo ripreso con la musica, andai a lezione da Pino Novelli. Soprattutto cominciai a scrivere canzoni, ne conto almeno duecento. Intanto sia in pittura sia con la musica, il mio faro cominciò a essere Dante. Ad esempio ho musicato il quinto canto dell’Inferno con Paolo e Francesca e il 28° del Purgatorio, due spettacoli per gli studenti tenuti all’Almagià. E poi tanti concerti, molti al Mama’s".
Molti suoi quadri sono ispirati da soggetti religiosi.
"Soprattutto dal 2012, anche se già negli anni Ottanta, dopo l’esperienza camaldolese, avevo affrontato questo tema. In questi ultimi dieci anni molte chiese mi hanno richiesto quadri ispirati a soggetti religiosi, quattro opere al Santuario Collina di Pondo, quattro alla chiesa del redentore di Bagno di Romagna con anche 14 stazioni di via crucis, solo per citare le ultime. E non dimentichiamo il drappo per il palio del Niballo di Faenza del 2019, in cui ho raffigurato San Pietro".
E poi le mostre…
"Mi piace ricordarne tre, dedicate a Dante: nel 2011 in San Giacomo, in via Ponte Marino, nel 2013 alla sala Ragazzini in Largo Firenze e due anni fa a Faenza".
Carlo Raggi