Chi era morto di mesotelioma. Chi s’era ritrovato a dovere fare i conti con le placche pleuriche. E chi aveva ricevuto una diagnosi di asbestosi. Nomi differenti, unica la ragione: l’inalazione di amianto durante il lavoro. E se una intera pagina di storia ravennate - quella legata al secondo polo chimico più grande d’Italia -, s’era chiusa nel dicembre 2021 sul fronte penale con una raffica di assoluzioni passate in giudicato, su quello civile il giudice del Lavoro Dario Bernardi, con sentenza depositata ieri, ha condannato Eni Rewind a pagare a Inail gli indennizzi riconosciuti a suo tempo per 24 lavoratori perlopiù morti di mesotelioma. In totale la somma solletica i 7 milioni, considerando pure gli interessi. A cui si devono aggiungere altri 55 mila euro circa di spese di lite.
Il giudice Bernardi ha cioè riconosciuto la fondatezza del ricorso per azione di regresso presentato da Inail attraverso l’avvocato Gianluca Mancini. Per capire, torniamo alla formula utilizzata dai giudici penali e passata in giudicato: "Per non avere commesso il fatto", che dunque sussiste. Le assoluzioni, avevano già fatto notare a suo tempo i giudici della Cassazione, dipendevano dalla "ricostruzione di quegli elementi sull’evoluzione della patologia" che consentano, "con ragionevole certezza", l’individuazione "dei soggetti responsabili" succedutisi nel tempo nei vari incarichi direttivi. Perché, si sa, la responsabilità penale è del singolo. Ma - come sottolineato dal giudice Bernardi - "nessuno ha mai stabilito che il responsabile civile", cioè Eni Rewind spa (già Syndial Attività Diversificate spa) "non è stato responsabile di quanto oggi Inail gli addebita".
Breve flashback sull’indagine penale: era scattata nel 2009 e aveva abbracciato mezzo secolo di petrolchimico nostrano (dagli anni ’60 fino al 2012) coinvolgendo 28 isole produttive per un totale di 78 parti offese: perlopiù operai ammalati o familiari di deceduti (in un caso pure la moglie di un operaio che stirava le sue tute). Eni Rewind - ha annotato Bernardi - si è limitata "a sostenere che i lavoratori malati non erano suoi dipendenti e che Inail non ha mostrato il collegamento societario". Allo scopo, ha depositato una "visura societaria storica di 4.500 pagine". Un atteggiamento che "non può evidentemente essere premiato" tanto più che "mai prima d’ora" la società "ha lamentato la propria estraneità alle vicende e ai lavoratori in questione. Soprattutto nel penale". Superato anche lo scoglio della eventuale prescrizione del ricorso Inail datato maggio 2023 ("evidentemente prima della maturazione di qualunque prescrizione"), il giudice ha sottolineato come per i mesoteliomi vi fosse stata assoluzione "per non avere commesso il fatto". Ovvero "al contrario era stata accertata la dannosità dell’ambiente, le malattie dei lavoratori e il nesso di causalità". Solo l’impossibilità di "stabilire le epoche esatte in cui il processo neoplastico è divenuto irreversibile in ciascun lavoratore", ha impedito l’irrogazione di condanne penali per le "persone fisiche" cioè i vari responsabili che si sono succeduti. Ma per la società nel suo complesso, il fatto resta. "Circa la violazione di regole anti-infortunistiche", il giudice ha richiamato sia la sentenza d’appello a Bologna che l’istruttoria di primo grado a Ravenna: "La colpa del datore di lavoro, qui evidentemente sussiste per totale omissione delle misure informative e precauzionali".
Nei numeri: sono rimaste fuori le 32 posizioni di lavoratori già stralciate a suo tempo in udienza preliminare "perché i relativi reati erano già prescritti". E poi quelle posizioni per le quali "non sia risultata in sede penale la responsabilità datoriale". Tutti gli altri, sì per una sentenza che potrebbe valere molto più dei 7 milioni di condanna.
Andrea Colombari