Leucemia, l'incubo e poi il giro del mondo in barca a vela

Ravenna, Michele Piancastelli ha combattuto la malattia e si è messo in barca. Per 7 anni: un'avventura da cui è nato un libro

Michele Piancastelli in una foto esotica

Michele Piancastelli in una foto esotica

Ravenna, 28 aprile 2019 - Quando dovette decidere in quale corpo svolgere il servizio militare non ebbe dubbi, paracadutisti a Pisa, un corpo già da tempo impegnato a guardia della tregua in Libano: il desiderio di conoscere il mondo e il continuo dinamismo sportivo sono stati i binari su cui fin da ragazzo ha impostato la vita. E lungo i quali Michele Piancastelli si è mosso anche quando, nell’agosto del 1988, entrò all’Anic. Lavoro, calcio aziendale, avventura, mai una sosta. Ma un giorno del 2004, all’indomani di una partita di finale, il medico lo chiamò: «C’è qualcosa che non va nelle analisi». Leucemia mieloide acuta: una mazzata, l’immobilità pressoché assoluta, l’isolamento, la chemio, l’aggravamento, poi il trapianto, la speranza, la rinascita. Malattia professionale, conseguenza degli anni al reparto Cvm del Petrolchimico. «Non ho mai pensato di non farcela, neanche nei momenti peggiori». A salvarlo ha contribuito un sogno ad occhi aperti nelle stanze sterili degli ospedali, la mente sempre attiva, a pensare in positivo, a fantasticare un viaggio in barca a vela attorno al mondo. Michele è guarito e il giro in barca l’ha fatto; è durato sette anni. Sull’incredibile avventura, con Paola Turroni ha scritto un libro, ‘Altrove’, e adesso a Marina insegna ai ragazzi i segreti del mare e della navigazione.

Quanto è durato l’incubo?

«Tre anni, dal marzo 2004 a fine estate 2007. All’ultimo esame il medico mi disse: ‘Sei guarito, vai’. Già avevo comperato la barca, il suo nome è ‘Altrove’. Era il momento di tradurre in realtà i sogni che la mia mente aveva costruito durante la lunga degenza».

Come si fa a sognare mentre si rischia a vita?

«La notizia della leucemia mi travolse, è ovvio. Oltretutto stavo benissimo, avevo appena finito il torneo di calcio, come era possibile una cosa del genere. Poi appena misi a fuoco la situazione, e mia sorella Alessandra, biologa in oncologia a Meldola, mi fu di grande aiuto, capii che da quel momento sarei entrato in un altro mondo, dove tutto cambia, i suoni, i volti, il tempo, le priorità... E compresi che occorreva tirar fuori una gran forza».

Non deve essere facile…

«Il primario di ematologia, Alfonso Zaccaria, mi tratteggiò tutto il possibile percorso della malttia e mi impose di pensare a vivere. Mi dissi: ‘E’ capitato a te: adesso, come sempre, cerca di lottare e di dare il meglio’. Così è stato».

Un carattere forte…

«Merito della famiglia, di mio padre, Bruno, corridore in bicicletta negli anni 50, nel Pedale Ravennate e poi anche professionista, lui mi ha insegnato i valori dello sport, sacrificio, impegno. E merito di mia mamma, Valla, di tutti i consigli che mi ha dato e ancora mi da».

Lei ha fatto il servizio militare nei Paracadutisti.

«A Pisa e Siena: era il 1986. Lo spirito d’avventura era già dentro di me. In quegli anni i ‘parà’ erano in Libano come forza di pace».

E dopo il congedo?

«Il primo agosto del 1988 fui assunto all’Anic, reparto Pvc, policloruro di vinile, altamente cancerogeno, ma non eravamo preoccupati, eravamo tanti giovani appena assunti, buona paga. Per un anno e mezzo ho sversato cloruro di vinile dai sacchi ai serbatoi: solo 16 anni dopo mi sarei reso conto….Poi il reparto Stirolo, quattro anni».

Un reparto con rischi minori.

«Oh, sì, ma ne ho cambiati altri. Erano i primi anni ’90, l’Enichem era in piena crisi…c’erano settori che chiudevano, altri erano ceduti. Mi mandarono alla centrale termoelettrica, un ambiente tipo militare anche perché gli specializzati provenivano dalla Marina, ci sapevano fare con le caldaie ad altissima pressione. Lì sono rimasto sei anni, ricordo che erano in corso i lavori per togliere le tonnellate di amianto…C’era polvere ovunque. In quel periodo, il ’97, nacque mio figlio, Mattia. Infine l’ultimo reparto, Sbr, lavorazione della gomma».

Quando cominciò il lungo tunnel della malattia?

«L’11 marzo 2004 entrai in ospedale, camera sterile per tentare di azzerare il rischio infezioni. Vita da isolato e tre cicli di chemio, un mese l’uno, intervallati da due settimane a casa, ma senza muoversi. Da quel giorno cominciai a tenere il mio ‘diario di bordo’, vita reale e fantasia veleggiavano insieme,. Fu così che prese piede la sfida: battere la malattia e cominciare una nuova vita in mare».

Era già in lista per un donatore di midollo?

«Sì, fu trovato in estate. Il 4 agosto entrai al S.Orsola per il trapianto. Ma prima, un altro mese di chemio e nacquero altri problemi. Ce la feci e il 3 novembre fu possibile la trasfusione del midollo osseo. Sono stati i mesi forse più terribili, ma la solitudine delle camere sterili e gli alti e bassi della malattia mi avevano insegnato che occorre avere sempre uno spirito positivo».

Poi capì che ce l’avrebbe fatta?

«A novembre 2005 i medici mi hanno permesso di andare per mare. Due settimane verso le Canarie. Lentamente il mio corpo riprendeva contatto con il mondo. Sentivo che la carica veniva dal contatto con gli spazi immensi del mare, sentivo che il sogno stava per diventare realtà e nel 2006 con i soldi dell’indennizzo per la malattia comperai ‘Altrove’ una barca del 1938, una meraviglia. Tutti i giorni in cantiere e a fine estate del 2007 il verdetto dei medici: sei guarito».

Nulla poteva più trattenerla sulla terraferma!

«Ma c’erano ancora molte cose da sistemare, anche il babbo mi aiutava in cantiere. Partii l’1 luglio del 2009. Prime tappe Eolie e Sardegna. L’obiettivo era un giro senza meta. Era con me Amedeo, un amico ravennate, mi aveva raggiunto a Capoverde. In 18 giorni arrivammo ad Antigua e qui giunsero in aereo i miei genitori: una splendida vacanza. A febbraio 2010 ripresi la navigazione, verso le isole Olandesi al largo del Venezuela per poi puntare verso l’arcipelago di San Blas, davanti a Panama. Ormai l’obiettivo era il Pacifico. Era con me un altro amico di Marina, Alessandro Zaffagnini.La rotta verso San Blas è stata la più drammatica di tutti i sette anni di mare. Non ho mai visto onde così alte»

Poi il giro del mondo.

«Prima tappa Las Perlas, poi le Galapagos, 24 giorni di mare, 3.200 miglia…17/18 ore di timone al giorno. A Panama era salita a bordo una ragazza sarda, Luisanna, che girava il mondo. Almeno riuscivo a dormire tranquillo, lei ci sapeva fare e poi c‘era il pilota automatico. Dalle Samoa Luisanna si è imbarcata su un aereo, io ho visitato altre isole e poi a novembre ho puntato sulla Nuova Zelanda. Mille miglia, col telefono satellitare in tilt, solo la radio. Il 19 sono approdato a By of Islands, in mezzo alla nebbia, era freddo. Sono rimasto sei mesi, la stagione degli uragani».

Ha mai pensato a casa?

«Certo, la nostalgia era molta. Mi mancava Mattia: a marzo 2012 feci un salto a casa, in aereo, due mesi. Poi la ripartenza. A Reunion arrivò la notizia, il babbo stava male. Rientrai subito».

Pensò di interrompere?

«Purtroppo di lì a due settimane il babbo morì. Restai con mamma fino a settembre, poi tornai a bordo di ‘Altrove’: puntai sul Mozambico, le isole Chagos, poi il capo di Buona Speranza, Brasile, Azzorre, Gibilterra, Marina: 40mila miglia, 7 anni e un mese dopo la partenza. Tante incredibili esperienze umane. Ma dalla morte del babbo tutto era cambiato».

Il mare resta la sua vita.

«E’ anche il mio lavoro: skipper e istruttore alla Tst, a Marinara».