Matteo Cagnoni, il giudice. "Morte di Giulia, fu un femminicidio"

Le motivazioni dell’appello che ha confermato l’ergastolo a Matteo Cagnoni

Matteo Cagnoni scortato in tribunale

Matteo Cagnoni scortato in tribunale

Ravenna, 15 novembre 2019 - Per i giudici «la determinazione finale» di Cagnoni a uccidere la moglie con modalità definite «crudeli», va letta nel contesto della vita di coppia. E in particolare nei mesi precedenti all’omicidio e nella successiva condotta dell’uomo. «Punto centrale – spiega la Corte – è la perdita del potere su di lei». Cagnoni insomma «non accetta che Giulia non gli obbedisca più , che non lo adori più».

Sì, perché prima lui aveva sempre esercitato su di lei «un enorme potere economico, culturale e caratteriale». Un uomo insomma «intimamente convinto di dominare e di possedere » la consorte «totalmente e indefinitamente, quasi fosse una sua proprietà». Un uomo con una «personalità fortemente narcisistica, molto legato al suo apparire perfetto nella società altolocata ravennate». E così «quando Giulia manifesta l’intenzione di separarsi, lui rifiuta tale prospettiva». Ma lei è ormai determinata, ha già intrapreso una nuova relazione con un uomo che secondo Cagnoni ha «una posizione sociale e culturale inferiore alla sua».

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È su questa tela che l’affresco dei giudici si sposta sullo «stereotipo culturale alla base della cosiddetta violenza di genere». Cioè quando «la relazione con la donna è vissuta da un lato come dominio, dall’altro come assoluta fusione, come negazione di autonomia e identità». Un «discorso di progressiva sopraffazione », situazione che, se «messa in discussione», « può sfociare in feroce violenza e, in casi estremi, nel femminicidio».

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Una condizione – proseguono le motivazioni – che «appare permeare il sentire dell’imputato» capace di comportarsi con Giulia in questo modo: «Le ha stretto un cerchio di controllo inibendole progressivamente tutte le relazioni, costringendola a lasciare il lavoro e reagendo alla sua infelicità coniugale somministrandole psicofarmaci». E infine, davanti all’esistenza di un altro, ha cercato di farla desistere con «ricatti economici e affettivi» per poi « cancellarla dalla faccia della terra piuttosto che lasciarla andare».

In quanto al «modo efferato» di ammazzarla, si è trattato di una «somma punizione» tanto che le ha « cancellato il volto a furia di percosse e ne ha spogliato il corpo» con un proposito: insultarne «anche dignità e memoria». Nessun dubbio sull’aggravante della crudeltà: «La stessa scelta di un mezzo di inflizione di sicure sofferenze quale un randello da parte di un medico, cioè di» qualcuno che «poteva certamente procurarsi strumenti di morte indolori o meni cruenti», per la Corte « è indice di raccapricciante cinismo e particolare crudeltà ». E se quel bastone era stato lasciato sulla scena del crimine, è solo perché Cagnoni «presumibilmente voleva fare attribuire l’omicidio a soggetti ignoti socialmente emarginati». Lo stesso vale per la premeditazione palesatasi attraverso quello che è stato definito vero e proprio «agguato» realizzato con il pretesto di «fotografare un quadro» da piazzare a un gallerista: eppure Cagnoni nei giorni precedenti «era stato perfettamente in grado di fotografare da solo i dipinti». Si arriva qui a quell’ultima immagine con Giulia inviat a al gallerista il giorno del delitto: lo scopo? «Crearsi un alibi nel caso fosse emerso» che «era entrato nella villa» con lei.