Morto dopo intervento, in due a processo

L’accusa: ucciso da edema cerebrale determinato da un errore nella miscelazione dei gas destinati alla circolazione extracorporea

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Aveva scherzato e chiacchierato con la moglie e il fratello fino a pochi minuti prima di entrare in sala operatoria. Né lui né i suoi cari potevano certo immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta assieme.

Il signor Mauro Casadio, ravennate di 57 anni compiuti da pochi mesi, era andato incontro al suo destino in pochi giorni: prima il coma irreversibile e poi la morte. Il calendario segnava 14 novembre 2019. A distanza di quasi tre anni dai fatti, martedì partirà il processo che vede imputati una anestesista e il tecnico perfusionista - entrambi residenti a Bologna - dell’equipe della struttura del capoluogo felsineo, la clinica ’Villa Torri Hospital’, nella quale il 57enne era stato operato. Devono rispondere di omicidio colposo in cooperazione. E già a questo punto si profila una prima singolarità della vicenda. La procura, dopo avere chiesto e ottenuto l’archiviazione per altri tre camici bianchi legati all’operazione (due chirurghi e un secondo anestesista), si è concentrata sull’operato dei due imputati grazie alle consulenze tecniche affidate a un proprio esperto e soprattutto a quelle vergate dagli esperti individuati dai familiari del defunto. Ebbene: per l’accusa l’edema cerebrale che ha ucciso il paziente, è stato determinato da un errore nella miscelazione dei gas destinati alla circolazione extracorporea, la cec.

E torniamo qui ai quei giorni di novembre. Il signor Casadio, operaio al Consorzio di Bonifica (sede di Lugo) aveva alle spalle una vita sana tanto che fino al 2007 aveva giocato a pallavolo. Quindici anni prima gli avevano diagnosticato un malfunzionamento della valvola mitralica: e così nel 2005 era stato operato al Maria Cecilia Hospital di Cotignola. Nessun’altra patologia e una vita normale fino a che, per usura, quella valvola avrebbe dovuto essere sostituita.

Quattro novembre il ricovero nella clinica bolognese. Con lui c’è la moglie Dina Costa, avvocato della Foro di Ravenna: e sarà proprio lei, con l’aiuto della collega e amica Emanuela Rijillo, a fare partire le indagini attraverso un dettagliato esposto alla magistratura. Di fatto quel giorno le analisi vanno bene, l’intervento viene anticipato all’indomani. Il giorno dell’operazione i due coniugi e il fratello di lui restano in stanza a parlare fino alle 15.15. Poi il paziente viene prelevato: tre ore e mezza, quattro il tempo stimato per vederlo riemergere. E invece, si legge amaramente nell’esposto, "dopo esserci salutati non ho più rivisto mio marito cosciente". L’operazione finisce alle 20.45. Il cardiochirurgo sembra soddisfatto: "L’intervento è ben riuscito, adesso lo stiamo saturando poi lo trasferiremo in terapica intensiva come di routine". E così tutti tornano a casa sollevati ma tanto distanti dalla realtà. Neppure un sms del giorno dopo sembra riportare le cose al punto giusto: "Sta andando bene - scrive il cardiochirurgo in un sms delle 8.21 -. Non l’hanno ancora estubato perché è ancora un po’ rintontolito ma senza alcun deficit".Alle 11.03 è la clinica a farsi sentire: questa volta per comunicarle che stavano portando il marito nella sala Tac perché non si svegliava. Solo l’inizio della terribile presa di coscienza per quello che da ’piccolo edema’ si era trasformato in una voragine: coma irreversibile seguito dalla morte.

Com’è potuto accadere? I consulenti della procura sono giunti, dopo integrazione, a conclusioni analoghe a quelle dei colleghi nominati dai familiari: tutta colpa di una carenza di ossigeno determinata da una miscelazione sbagliata nelle prime fasi del cec. Con un piccolo giallo rilevato dai consulenti di parte a margine di una grande tragedia: la cartella cec usata in prima battuta dai consulenti del pm riportava valori diversi da quella che compare nel fascicolo della procura.

Andrea Colombari