No al permesso per un cavillo Ma ora il Tar ribalta le cose

Emersione da lavoro irregolare: il diniego per un certificato medico era privato. Ma per i giudici amministrativi anche quel documento era valido

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Un bollettino pagato alle poste, la ricevuta di un trasferimento internazionale di danaro, il certificato di iscrizione a scuola, la fattura per la sim card del cellulare, un biglietto aereo e persino un biglietto dell’autobus. Per un extracomunitario c’erano insomma tanti modi validi a dimostrare di trovarsi in Italia prima dell’8 marzo 2020, fatidica data limite per ottenere l’emersione da lavoro irregolare. Tanti ma non quello: ovvero un certificato la cui unica colpa era quella di essere stato emesso in professione medica privata. Una interpretazione ribaltata ora dal Tar di Bologna che ha dato ragione a due cittadini di origine magrebina – datrice di lavoro da tempo residente a Ravenna e collaboratore domestico tuttofare - accogliendo il loro ricorso e annullando il rigetto della dichiarazione di emersione dal lavoro irregolare notificata il 2 luglio scorso. Secondo quanto lamentato dal legale dei due – l’avvocato Andrea Maestri –, con il diniego in questione si era verificata una “plurima violazione di legge”, compresa quella costituzionale: tesi che aveva già portato a una prima vittoria in sede cautelare. Ora il collegio dei giudici bolognesi, presieduto da Andrea Migliozzi, pur compensando le spese, ha dato ragione ai due magrebini anche nel merito. In particolare il Tar ha rilevato che la donna aveva presentato domanda per il dipendente di emersione del lavoro domestico irregolare il 26 giugno 2020. Ma lo sportello unico Immigrazione di Ravenna aveva osservato come la documentazione fosse “carente sotto il profilo della prova della presenza in Italia”. All’indice ci era finito un certificato medico datato 20 giugno 2019 in quanto “rilasciato nell’esercizio della professione medica in forma privata”.

La datrice di lavoro allora, attraverso una specifica memoria dell’avvocato Mbete Nzati, aveva fatto presente che lo stesso ministero dell’Interno, con apposita circolare del maggio 2021, aveva sciorinato tutta una serie di documentazioni utili a provare la presenza dello straniero in Italia prima della fatidica data. E tra queste, anche la “certificazione medica proveniente da struttura pubblica”. Per la datrice di lavoro si trattava di un elenco “meramente esemplificativo”. E in ogni caso era “inammissibile che come prova” fossero accettati abbonamento del bus (cioè di linee gestite in appalto da società private) o addirittura contratti con operatori telefonici (ovviamente privati) e invece “si negasse importanza a un medico di continuità assistenziale” ossia a una dottoressa “incaricata di pubblico servizio e con ambulatorio in ospedale a Ravenna”. Una interpretazione condivisa dal tribunale amministrativo: “Anche il certificato rilasciato in forma privata è idoneo a fornire prova della presenza in Italia prima dell’8 marzo 2020”.

a.col.