Omicidio Minguzzi, l'imputato: "Ero al telefono con la madre"

Del Dotto ha ripercorso la notte del rapimento: "Chiamò più volte in caserma dall’una a chiedere notizie del figlio"

Angelo Del Dotto durante la deposizione di ieri in tribunale

Angelo Del Dotto durante la deposizione di ieri in tribunale

Ravenna, 22 febbraio 2022 - Per quella notte lui ha qualcosa che, almeno nelle sue parole, assomiglia tanto a un alibi. Sì, perché a ridosso dei fatti era al telefono con la madre del giovane sequestrato e poi ammazzato. Lui era in caserma, lei gli chiedeva notizie del figlio non rientrato per mezzanotte. Per anni ha covato quel particolare, salvo essere subito smentito in aula dalla donna. In ogni modo forse lo aveva rivelato ai due pm che all’epoca indagavano sul giovane ucciso. Poi però se lo era tenuto dentro anche al netto dell’avviso di conclusione indagine col quale il pm di ora gli aveva comunicato di volerlo portare a processo. Angelo Del Dotto, 58 anni, di Palmiano (Ascoli Piceno) e allora carabiniere in servizio ad Alfonsine, davanti alla corte d’assise di Ravenna ieri ha raccontato la sua verità.

Omicidio Minguzzi: "Nel manuale del carabiniere nodi simili a quelli mortali"

Lui ha deciso di sottoporsi all’esame delle parti, come ha fatto pure il primo dei coimputati, l’allora idraulico del paese, il 65enne Alfredo Tarroni. Entrambi hanno sempre partecipato alle udienze per l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi, il 21enne carabiniere di leva a Bosco Mesola, nel Ferrarese, ultimogenito di una famiglia di imprenditori di Alfonsine, sequestrato a scopo di estorsione mentre rincasava la notte tra 20 e 21 aprile 1987 e ucciso subito dopo. Il terzo e ultimo imputato, il 57enne Orazio Tasca di origini siciliane, residente a Pavia e al tempo pure lui carabiniere ad Alfonsine, ha invece rinunciato sia all’esame che, come sempre accaduto, a essere presente in aula. "Avevo quasi 24 anni – ha ricordato Del Dotto rispondendo per circa 40 minuti alle domande delle parti – e dormivo nella stanza con Tasca: con lui c’erano buoni rapporti. Con Tarroni era Tasca che aveva più confidenza: io a casa sua entrai solo due volte". Dei Minguzzi "conoscevo il fratello e sapevo dove abitavano". All’epoca "si guadagnava circa 750mila lire al mese" e col collega "al casinò ci andai diverse volte: ma dopo aver perso 100 mila lire, ce ne andavamo via". Sul fronte soldi ha aggiunto di aver chiesto "un finanziamento da 10-12 milioni di lire a una banca di Longastrino per comperare una nuova auto, un’Audi 80". E che i circa due milioni di lire trovati nel suo armadietto, potevano corrispondere a quelli incassati dal carabiniere a cui aveva venduto la vecchia vettura, una ’Fiat Ritmo’.

Omicidio Minguzzi, dal Dna nessuna traccia Ed eccoci arrivati alla notte dei fatti: "Ero di piantone con turno dalle 19 alle 19 del giorno dopo: e sono stato tutta la notte a parlare al telefono con la signora Minguzzi". Secondo l’imputato, lei chiamò una prima volta in caserma tra l’una e l’una e mezza: "Mi disse che il figlio doveva tornare per mezzanotte e mi chiese se sapessimo dove fosse. Poi richiamò, era preoccupata. Allora telefonai ai carabinieri e agli ospedali di Lugo e di Ravenna: scrissi tutto sul registro delle chiamate". Alla terza chiamata "lei mi chiese di poter parlare col maresciallo Toscano e lo contattai al citofono, lui scese". A quel punto "ci fu la quarta telefonata. Alla fine lui disse: ‘Vado a casa loro’. Strano che non si sia ricord ato". Sul punto, l’avvocato difensore Gianluca Silenzi ha fatto presente di aver chiesto il 25 giugno 2020 alla caserma di Alfonsine i registri delle chiamate. La risposta, giunta il 16 luglio, non ha lasciato margine alle verifiche: "Visto il tempo trascorso, nulla è stato ritrovato". Ma Rosanna Liverani, madre del defunto, è sicura di aver fatto la prima chiamata alla figlia Anna Maria solo verso le 5, poi telefonò a un amico del giovane: "Aspettai fino a quell’ora – ha detto in aula – perché pensavo che Pier Paolo per la prima volta avesse fatto tardi. Ma non ho mai chiamato in caserma".