Quando l’industria si prese la natura L’Anic, il ’Gigante’ che cambiò tutto

Nell’installazione alla Classense la storia di come il grande complesso produttivo ha modificato Ravenna. Dall’inaugurazione nel 1958 alle battaglie sindacali, fino alle conseguenze inimmaginabili sull’ecosistema

Dalle bolle di sapone, metafora del vapor acqueo sprigionato dalle torri di raffreddamento, al dialogo finale di Deserto Rosso (lo evidenzia Alberto Giorgio Cassani, docente di architettura, nelle sue note), fra Giuliana e il figlioletto, sul fumo giallo velenoso che esce da altre torri e gli uccellini che rischiano di morire: l’ampio tratteggio che dell’Anic, il ‘Gigante di Ravenna’, fa la mostra-happening di Raniero Bittante alla biblioteca Classense, offre ai ravennati che quei frenetici anni a cavallo fra Cinquanta e Sessanta non li hanno vissuti, un esauriente mosaico di un periodo che segnò il passaggio sociale epocale per la città, dall’economia agricola a quella industriale. E parimenti segnò un negletto punto di partenza, comunque generalizzato nel Paese, verso l’avvio dell’aggressione selvaggia dell’ambiente: un’intera pineta abbattuta per costruire il più grande petrolchimico d’Italia, l’atmosfera invasa da fumi inquinanti e tanto densi che da allora cominciarono a scomparire i poetici, pittorici tramonti in pialassa. Per non dire d’altro.

Quando nell’aprile del ’58 il presidente del Consiglio Adone Zoli inaugurò il ‘Gigante’ voluto da Enrico Mattei, ben scarsa era, nella società, la consapevolezza del disastro ambientale che si innestava. Poche menti elette lo percepivano e fra questi monsignor Giovanni Mesini, eccelso studioso di Dante, cultore del patrimonio artistico e monumentale di Ravenna, che scrisse "la poesia ha dovuto cedere al progresso". E comunque anche per Mesini lo sfregio era quello naturalistico, della pineta: non c’era coscienza, all’epoca, sui danni all’intero ecosistema, specie animale e umana compresa. Basta pensare anche all’utilizzo generalizzato, all’epoca, dell’amianto o del Cvm, la cui cancerogenicità fu scoperta successivamente. Tessera dopo tessera, fra opuscoli con la storia del cantiere, dello stabilimento, foto, manifesti, timbri giganti che chiunque può imprimere su carta e leggere così sia brevi testimonianze di un tempo che fu sia i diagrammi produttivi del ‘Gigante’, emerge il mosaico completo di quel passaggio epocale il cui avvio era stato concretizzato la mattina del 24 aprile 1955 in Municipio a Ravenna con la firma dell’accordo con cui il Comune (era sindaco Celso Cicognani, repubblicano) cedeva all’Anic i 212 ettari su cui sarebbe sorto il petrolchimico voluto dal presidente Enrico Mattei con l’obiettivo di sfruttare il metano appena scoperto nel sottosuolo ravennate per produrre gomma sintetica e concimi. Disse Mattei quel giorno: "Questa grande industria consentirà non solo l’occupazione di molti operai, ma soprattutto segnerà l’inizio della trasformazione industriale di molta parte della Romagna".

Non v’è dubbio alcuno che senza quel grande passo voluto da Mattei, la storia di Ravenna e anche della provincia sarebbe stata diversa. Basti pensare alla copiosa immigrazione soprattutto dalle Marche, favorita dal marchigiano presidente dell’Eni, che determinò un notevole salto demografico e incise sul fronte politico: fece confluire su Ravenna, area politicamente divisa fra comunisti e repubblicani, un forte elettorato democristiano prima sconosciuto con un’impennata del sindacato Cisl che all’Anic era in maggioranza. Basti dire che nel novembre del 1960, Uil e Cgil proclamarono tre giorni di sciopero (uno ‘scandalo’!) per ottenere un integrativo che la Cisl da sola aveva già ottenuto. Ecco, l’aspetto più rilevante della mostra, ove tutto questo si coglie, è di aver fatto entrare questa grande fetta di storia ravennate nel luogo istituzionale della cultura per eccellenza.

Incontro Attila Monti, direttore dell’Anic fra il 1979 e il 1988 mentre si sofferma con interesse sui singoli step della mostra. In quegli anni i tempi d’oro del petrolchimico stavano esaurendosi. "Anzi, erano esauriti, c’erano grossi problemi, era in perdita e gli americani puntavano a chiuderlo. Il mio impegno fu invece quello di fare il possibile per tenerlo in piedi. È sempre stato un mio principio ispiratore il fatto che un’azienda è un insieme indissolubile di persone e macchine e dietro alle persone ci sono famiglie e questo occorre sempre tenerlo presente. E ancor più questa ‘comunità’ lo era l’Anic, all’avanguardia fin dall’inizio sul fronte sociale con lo spaccio interno per i dipendenti, l’asilo, la scuola materna, il villaggio. Per questo ho fatto di tutto perché lo stabilimento venisse preservato: e ci fu un solo modo, quello che la stampa all’epoca chiamò ‘spezzatino’, cioè il frazionamento delle produzioni e la loro cessione. Così il petrolchimico si è salvato e ancora oggi dà lavoro a tanti".

Carlo Raggi