REDAZIONE RAVENNA

Un boato lacerò il silenzio in mare La notte del disastro del Paguro

Tre morti nella sciagura al largo di Marina che nel settembre 1965 distrusse la piattaforma metanifera

di Carlo Raggi

La grande, circolare piattaforma dell’eliporto è inclinata a sessanta gradi e la superficie del mare increspato ne lambisce i bordi e ne diventa tangente, mentre, a fianco, da tremila metri nel ventre della terra, il metano schizza dall’acqua in fiamme innalzando volute per decine di metri e spandendo fumo, spettacolo quasi incredibile se non fosse che è tragica immagine fissata sui giornali dell’epoca e resa perenne da internet, immagine diventata iconica della sciagura di 57 anni fa. La sciagura del Paguro, la notte del 28 settembre 1965, 57 anni fa: tre tecnici morirono annegati nelle concitate fasi dell’abbandono della piattaforma quando, dopo due ore di eruzione di acqua e fango, alle 23.30 cominciò a essere incombente il rischio di incendio del metano che aveva cominciato a fuoriuscire a una pressione di 600 atmosfere. Erano in 38 a bordo: gli altri 35 si salvarono, sia pure in circostanze fortunose perché i mezzi di salvataggio in dotazione non furono tutti fruibili anche a causa del mare forza 4.

Questo è il racconto di quella notte 14 miglia al largo, a sud rispetto a Marina, al pozzo ‘Porto Corsini est 7’: sarebbe stato il trentesimo e passa pozzo perforato in Adriatico da quando nel 1960 lo ‘Scarabeo’, ben piccola piattaforma rispetto al Paguro, aveva mosso i primi ‘passi’ davanti alla costa ravennate alla ricerca del gas che Enrico Mattei fin dall’immediato dopoguerra aveva valutato come fonte energetica fondamentale per avviare il processo di industrializzazione (l’Anic fu il primo esempio), di progresso del Paese. Basti dire che i pozzi del mare ravennate all’epoca producevano ben oltre un milione di metri cubi di metano giornalieri. Quel gas che, in tempi successivi canalizzato attraverso le due stazioni di terra, a Casal Borsetti e a Lido Adriano, permise ai ravennati, ai lughesi, ai faentini (a terra c’erano pozzi di estrazione fin dagli anni 50) e via via a tutta la Romagna di riscaldare le case e di cucinare senza più l’assillo del rifornimento della legna e del cambio delle bombole.

Il Paguro, cinquemila tonnellate di ferro, realizzato nel 1962 in tempi record nel cantiere di Porto Corsini sull’arenile fra il molo e la diga nord (ancora in costruzione), era sceso in mare nel luglio del 1963 e dal 15 agosto aveva cominciato a perforare il fondale marino in corrispondenza delle tante sacche di metano già individuate. Da quel giorno fino al 16 settembre 1965, ovvero in due anni, il Paguro aveva perforato venti pozzi nel tratto di Adriatico fra la costa ravennate e quella riminese. Il 16 settembre aveva iniziato la perforazione del pozzo ‘Porto Corsini est 7’, il ventunesimo, con la sacca di gas a tremila metri sotto il fondale. Un lavoro di routine per i tecnici e gli operai a bordo. Alle 21 un forte boato seguito da un sibilo assordante lacerò il silenzio del mare: subito dalla colonna di perforazione si levarono verso il cielo acqua e fango. Molti si fecero prendere dal panico dovuto al fatto che qualora fosse cominciato a uscire anche il gas sarebbe bastata una scintilla per incendiarlo e sarebbe stato l’inferno.

I tecnici riuscirono a tranquillizzare i più: "C’è tempo prima che esca il metano!" Cesare Bergamaschi, uno dei tecnici, fece precauzionalmente spegnere le luci della piattaforma mentre gli addetti alla perforazione cercarono insistentemente di bloccare la fuoriuscita del fango. Bruno Cattani, tecnico di 44 anni di Parma, era addetto al macchinario: "C’è stato un guasto e non c’è stato nulla da fare per imbrigliare la perforazione, troppo elevata la pressione" raccontò, in ospedale, a Uber Dondini, giornalista del Carlino. Una lotta impari. Alle 23.30 ecco che con il fango cominciò a uscire il gas: a quel punto l’incubo delle fiamme divenne reale. E tutti cercarono di abbandonare la piattaforma, il terrore cominciò a prendere il sopravvento in molti. Solo uno dei quattro zatteroni fu utilmente calato in acqua e imbarcò quindici persone, altre trovarono posto sui pochi canotti che non si ribaltarono, molti decisero di tuffarsi. Tre di questi non ce la fecero, paralizzati dal freddo e dalla paura, morirono annegati.

I soccorsi con i natanti furono pressoché immediati, ma all’epoca non esisteva alcun coordinamento e soprattutto per raggiungere il posto occorse tempo, quasi due ore a fronte dell’allarme dato già alle 21. Le ricerche dei naufraghi nel buio della notte furono rese ancor più difficili dal mare forza 4. All’una di notte mancavano all’appello solo tre delle 38 persone: i 35 naufraghi raccolti vennero portati in ospedale, molti erano infreddoliti e sotto choc, alcuni erano feriti. Poco dopo, mentre fango e gas continuavano a fuoriuscire, fu recuperato il primo corpo, quello di Arturo Biagini di 41 anni, senese trapiantato a Ravenna; alle 4.30 fu avvistato e preso a bordo il cadavere di Pietro Pezzi di 31 anni, mentre all’alba un elicottero individuò il corpo di Bernardo Gervasoni di 29 anni di Bergamo. Alle 9 del mattino del 29 settembre una scintilla incendiò il metano: fiamme altissime furono visibili per giorni e notti dalle colline romagnole. Il calore immenso e soprattutto l’erosione del fondale dovuta alla forte pressione dell’espulsione incontrollata fecero presto cedere le ‘zampe’ del Paguro che poche ore dopo si coricò su un fianco e sprofondò: restò a pelo d’acqua solo la piattaforma dell’eliporto. Poi tutto si inabissò e per giorni dominarono alte lingue di fuoco.

Il 5 ottobre per qualche istante il metano si bloccò e la fiamma si estinse. L’eruzione poi riprese, ma ovviamente senza fuoco. Ci vollero settimane per chiudere la testa del pozzo. Dal 1995 il relitto e l’area circostante sono considerati sito di interesse ambientale comunitario.