"Una vita dedicata agli artigiani... e alla bici"

Tra politica e sociale, si deve a Casimiro Calistri la creazione della società finanziaria che ha garantito le piccole imprese presso le banche

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di Carlo

Raggi

Dice di essere stato fortunato nella vita, di certo è un ‘self made man’ i cui primi passi risalgono a settant’anni fa; e già quando aveva nove anni, in piena epoca bellica, aveva toccato con mano le atroci efferatezze nazifasciste: Casimiro Calistri ripercorre le tappe della vita con lo sguardo al futuro, conscio che ancora non ha esaurito la più recente delle funzioni assunte, sul fronte del sociale, all’interno della direzione nazionale dell’Ancescao, l’Associazione dei Centri sociali e delle attività connesse. Ciclista dilettante che gareggiava col grande campione Ercole Baldini, fu apprendista in un’officina per bici che, rilevandola, trasformò in un’azienda che le biciclette le fabbricava con il proprio marchio. Militanza nel Pri, una vita dedicata agli artigiani dai vertici ravennati e nazionali della Cna, si deve a lui la creazione della società finanziaria che per anni ha garantito le piccole imprese presso le banche. Presidente per otto anni del centro sociale La Quercia, si oppose alla sua chiusura, lo ha rilanciato e ne è ancora colonna portante.

Partiamo dal centro sociale di cui lei è considerato il salvatore… Cos’è accaduto?

"Nel 2010 il sindaco Fabrizio Matteucci mi chiamò dicendomi che era costretto a chiudere ‘La Quercia’, di cui peraltro ero stato presidente per due mandati fra gli anni 80 e i 90 ed ero poi rimasto nel direttivo".

E lei cosa rispose?

"Che non si chiudeva nulla perché qui nel quartiere Darsena avevano già chiuso il circolo repubblicano, il Psi, la Dc, la sezione Aquileia con Pds e Rifondazione, insomma se avessimo chiuso anche noi gli anziani del quartiere non avrebbero avuto più un posto in cui ritrovarsi. E aggiunsi che avrei pensato io a gestire il centro e che il Comune avrebbe dovuto solo togliere l’eternit dai tetti. Ricordo che a Fabrizio, di cui avevo enorme stima, dissi: ‘Non puoi ordinare di togliere l’eternit dai capanni in valle e lasciarlo qui! La gente non è affatto d’accordo".

E così fu?

"Certo, il Comune rifece il tetto e noi investimmo 120mila euro per rifare infissi, sala, fogne. Da allora sono sempre qui, a dare una mano. E ho un obiettivo, intestare la sala a Matteucci, un grande sindaco che ha speso l’anima per il sociale…c’è qualche resistenza, ma ce la farò".

Restiamo in argomento, lei è referente di Ancescao per la provincia di Ravenna. Per il Covid i centri sociali sono rimasti chiusi due anni…

"Con serissimi problemi di relazione sociale per gli anziani.Per fortuna ora tutto è tornato alla normalità, o quasi. Per quanto riguarda le gestioni dei centri sociali, in provincia sono una trentina, è necessario che i presidenti stiano al passo con i tempi…"

Il suo sguardo è rivolto al futuro, eppure viene da molto lontano. Da quanto lontano, Calistri?

"Sappia che alla liberazione di Ravenna avevo 9 anni e di quel periodo ho tanti ricordi e testimonianze".

Ne parliamo. Calistri non mi sembra però un cognome ravennate.

"Infatti, io sono nato a Serravalle Pistoiese, ma sono rimasto subito orfano. Per un po’ sono rimasto con i nonni e gli zii, poi nel 1942, a 7 anni, sono venuto a Ravenna dove mio fratello era poliziotto in Questura. Lui mi ha fatto da babbo e sua moglie, Lea Bettaccini, da mamma. Abitavamo in via S. Mama".

Quindi è andato a scuola a Ravenna.

"Sì, dalla seconda elementare. La scuola era in piazza dell’Impero, poi piazza dei Caduti. Ricordo la maestra, brava e fascista convinta. Dovevamo ogni giorno portare il ferro per la patria. Io per non essere da meno rubai un copri-pozzetto stradale in ghisa davanti a casa e portai quello. Ma a mezzogiorno in via San Mama arrivarono i carabinieri, i vicini si erano accorti che mancava quel coperchio e io al ritorno da scuola raccontai tutto e il giorno dopo rimisi tutto a posto. Intanto però a scuola ero diventato un mito".

Dal 30 dicembre del ’43 fino a pochi giorni prima della liberazione, Ravenna subì una quarantina di bombardamenti. Cosa ricorda?

"Uno è particolarmente vivido. Un grande bombardamento verso le 10.30 del mattino, vedevo i bombardieri in alto illuminati dal sole, vedevo quando sganciavano le bombe e quando scendevano, erano illuminate dal sole. Finirono tutte lungo la ferrovia e il porto. Devo dire che noi bambini non avevamo paura, ricordo che lungo la via Lametta, lungo l’argine del canale, c’erano i rifugi, penso spesso ai bambini che in Ucraina da mesi rivivono le stesse situazioni...".

Lei è stato testimone anche dell’eccidio di ponte degli Allocchi. L’abbiamo già raccontato. Mi dica invece quando cominciò a lavorare.

"Finito l’avviamento feci l’apprendistato nell’officina da biciclette Minguzzi in viale Pallavicini e al compimento dei 14 anni, l’11 marzo del ’49, la moglie del titolare mi consegnò il libretto di lavoro, un gran regalo per me, e aggiunse anche 5mila lire, una bella somma all’epoca! Pensi che lo stipendio mensile di mio fratello era di 13mila lire. In quell’anno cominciai anche a correre in bici".

E come si allenava, visto il lavoro?

"Dalle 4 alle 8 del mattino. Mi allenavo con Antonelli, campione italiano allievi e corsi anche con Ercole Baldini. Correvo per il Pedale Bianconero di Lugo e di gare ne ho vinte, ma altri erano più forti e smisi. A 18 anni, con provvedimento del tribunale, fui dichiarato maggiorenne e mi iscrissi alla Camera di Commercio e alla Cna, la Confederazione dell’Artigianato: avevo rilevato l’attività delle biciclette dei Minguzzi e nel 1952 mi ero installato in via Lanciani".

Nacquero allora le bici con il famoso marchio Calistri!

"Già, le assemblavo e mettevo il mio nome. Bici da corsa e da città. Negli anni 60 cominciai a produrre e vendere biciclette per gli alberghi con i loro nomi, a Cervia e Milano Marittima soprattutto. Poi per i campeggi. Ne ho vendute migliaia. Negli anni 80 la bicicletta sembrava destinata a scomparire, poi si è ripresa e ho continuato a produrle, sempre con il mio col marchio. Nel 2010 ho smesso l’attività".

Lei nel frattempo era impegnato politicamente e all’interno della Cna…

"Sì, cominciai nel direttivo comunale della Cna e nei primi anni 70 diventai presidente della sezione comunale della Cna, era in via Serra, poi nel ’75 all’avvio delle Circoscrizioni fui eletto come indipendente del Pri e nel 1982 venni nominato vice presidente provinciale della Cna, era presidente Vittorio Squassoni, e come tale entrai nella presidenza nazionale. Ero spesso a Roma, per fortuna c’era mia moglie, Franca, che gestiva l’attività. Avevo quattro dipendenti".

Erano anni di forte crescita dell’artigianato…

"Grande crescita, a Ravenna c’erano fior di aziende…quando oggi sento criticare la categoria, fare di tutto un mucchio mi arrabbio. Come ovunque ci sono buoni e non buoni…Torniamo a noi, fu in quel periodo, era segretario Ivan Foschini, che fui incaricato di fondare e presiedere la Finanziaria della Cna per garantire i finanziamenti agli artigiani. Assumemmo un giovane laureato alla Bocconi, mi ha insegnato tanto, la finanziaria ci fece crescere ancor di più. Poi nei primi anni 90 l’abbiamo liquidata, eravamo in attivo ma a Roma avevano altre idee…".

Lei ha anche rappresentato la Cna ravennate all’estero.

"Sì, tante volte. Ne dico due: dopo la morte di Tito, con una delegazione regionale andammo a Pola a inaugurare un monumento ai partigiani italiani che avevano combattuto con lui. C’era lo spettro della disgregazione, intervenni nella piazza gremita parlando di come in Italia avevamo cercato di dare voce a tutti, era il tempo del pentapartito… purtroppo di lì a breve si scatenò la guerra. E poi il viaggio in diciassette stati in Usa per capire i rapporti fra datore e lavoratori".