
Novita Amadei
Consulente nel campo dell'asilo politico e delle migrazioni internazionali, Novita Amadei presenta domani alle 18, alle Librerie Coop All'Arco di Reggio, il suo romanzo 'Da solo' (Neri Pozza), in dialogo con Pasquale Pugliese. Un libro ispirato a una storia che ha commosso il mondo intero.
Nóvita, che cosa ha voluto raccontare?
Agli inizi degli anni 2000, la prima popolazione di cui mi sono occupata sono state le donne dell’Est Europa, badanti in Italia. Le ho conosciute professionalmente e personalmente, affrontando con loro, fra le altre problematiche migratorie, quella della maternità a distanza. Sono rimasta legata a molte e quando mi è stato suggerito di raccontare in una storia la guerra russo-ucraina ho pensato ad Hasan, e a sua mamma Yulia, di cui avevo letto sui giornali. Anche questa vicenda racconta di un abbandono materno, ma specularmente, perché a partire non è la mamma, ma il figlio. Quello che mi aveva toccato di più, però, non era stato tanto il coraggio del piccolo eroe, quanto quello della mamma, che per salvare lui aveva accettato il rischio della separazione, restando a casa con la nonna ammalata. La guerra porta a fare scelte disumane, come quella dell’abbandono. Ma, come dice un personaggio secondario, una madre sa tenere insieme l’amore e il mondo anche quando lo sforzo è spaventoso. Ci saranno delle perdite, per forza, niente è dato per niente, e sembrerà senza speranza. La contraddizione, del resto, è naturale come l’assenza nell’amore.
Scrivere un libro ambientato durante un conflitto così attuale richiede una certa conoscenza, del contesto e degli eventi. Come ha affrontato questo lavoro?
Seguo la situazione politica e la popolazione ucraina da anni ormai, ho raccolto moltissime testimonianze delle prime migranti ucraine in Italia e intervistato diversi rifugiati che, in questi tre anni, sono fuggiti dalla guerra. Il mio ultimo viaggio in Ucraina risale alla primavera scorsa. Mi sono avvicinata ai territori da dove vengono i miei personaggi, mettendomi sulle loro tracce e scoprendo che tutta la famiglia, nel frattempo, si era messa in salvo a Bratislava. È lì che li ho incontrati l’estate scorsa e che ho raccolto la loro storia. Il loro racconto è riportato integralmente in postfazione al libro, per quel gioco di verità fattuale e verità narrativa che attraversa e giustifica tutto il romanzo e che lascia loro l’ultima parola.
L'opinione pubblica si è commossa profondamente per la storia di questo bimbo e questa mamma che con la sua scelta dolorosa ha provato a metterlo in salvo. Lei come ha letto questa vicenda ?
Ne I sommersi e i salvati, Primo Levi scrive: «Una singola Anna Frank ci commuove più che gli innumerevoli altri che hanno sofferto proprio come lei, ma le cui facce sono rimaste nell'ombra. Forse è meglio così: se fossimo capaci di contemplare le sofferenze di tutte quelle persone, non saremmo capaci di vivere». Anna Frank si fa portavoce di un avvenimento indicibile, diventando icona della deportazione di tutti quei bambini che, nella deportazione, non hanno avuto volto né voce. La sua storia particolare riflette un dramma collettivo che, condiviso narrativamente, viene portato all’interpretazione anche di coloro che non l’hanno vissuto. La letteratura, infatti, parla al lato esperienziale dell’essere umano, ai suoi sentimenti, all’immaginario. Jarek nel romanzo – o Hasan nella realtà - 'riassume' l’esperienza della fuga dei bambini che scappano dalla guerra, la sua storia diventa la storia di tutti i bambini che fuggono dalle guerre. Con lui, cioè, la letteratura dà forma e linguaggio a un esodo di massa, l’io diventa un noi, e in viaggio con lui, alla ricerca della salvezza, ci siamo tutti.
Guerre, tema del riarmo in primo piano e una manciata di uomini che sta provando a cambiare le mappe geografiche. Come si possono contrastare la comunicazione distorta e le propagande ?
La Russia ha invaso l’Ucraina per 'denazificarla', perché per i russi la più grande tragedia del Novecento è stata l’invasione nazista che ha trovato, fra gli ucraini, dei collaboratori. D’altra parte, in Ucraina, è lancinante il ricordo dell’Holomodor, la grande carestia provocata da Stalin fra il 1932 e il 1933 che aveva causato milioni di morti. E le stesse posizioni dei Paesi terzi si giustificano sulla base di una memoria storica che giustifica certe alleanze o alimenta le differenze. Quello che sembra finito per sempre torna anche a trenta, cinquant’anni di distanza, storpiato da una sonnolenza collettiva che omette certi passaggi, ingrassa l’immaginazione dei fatti e scambia i carnefici con le vittime. La memoria del passato si può falsare, strumentalizzare, perfino ostracizzare o prendere a pretesto per nuovo male. Eppure, quel che è stato è stato e, per quanto alterabile, il passato non si può cambiare né cancellare. Non resta, quindi, che affiancare al racconto del male – alla manipolazione storica, alla propaganda, all’allarmismo e disfattismo – il controcanto di una narrativa positiva, impaziente di futuro perché, come sosteneva il filosofo tedesco Ernst Bloch, «solo quel ricordare è fertile che nello stesso tempo ricorda quello che c’è ancora da fare». Nutrire le coscienze di storie virtuose, come quella di Da solo, aiuta a credere che la guerra non è inevitabile, non è una fatalità, ma solo e soltanto un delitto che possiamo evitare.