di Benedetta Salsi
La chiamano ’la corte degli esposti’: sono tutti coloro che hanno fatto parte della produzione di manufatti di cemento amianto, negli anni in cui era legale farlo. E lo è stato fino al 1992, quando una legge lo ne ha vietata la produzione in tutta Italia. Nella provincia di Reggio Emilia questa corte conta 3.366 addetti: impossibile, invece, quantificare quanti vi siano venuti a contatto in maniera collaterale; perché vivevano vicino a una fabbrica, perché lavavano a casa le tute dei mariti o perché quelle fibre d’amianto erano nell’aria o negli oggetti più comuni e innocenti che potessero entrare in casa: come i fornetti-giocattolo per bambini.
In Emilia-Romagna c’erano dieci aziende che producevano lastre di amianto, tra gli anni Sessanta e il 1992; di queste dieci otto erano in territorio reggiano. Quello che può aver fatto la differenza – una differenza fra la vita e la morte – è l’aver fatto rispettare le norme di sicurezza in azienda; regole che già erano in vigore dal 1956: non soltanto usare le mascherine, ma evitare che si sollevassero polveri, abbatterle immediatamente, l’inumidimento materiali, l’effettuare pulizie con aspiranti, il separare i materiali pericolosi dagli altri, il fatto di non consumare i pasti sui luoghi di lavoro e non portare a casa gli indumenti da lavare.
La notizia dell’archiviazione (anticipata ieri dal Carlino) datata gennaio 2021 del fascicolo per omicidio colposo di 52 presunte vittime d’amianto – gravitate intorno alla Icar spa (poi divenuta ‘Industria Eternit Reggio Emilia’) sulla via Emilia a Rubiera – è rimbalzata tra gli addetti ai lavori e familiari delle vittime. Sul registro degli indagati c’erano Stephan Ernst Schmidheiny (ultimo proprietario della Eternit) e Luigi Giannitrapani (ex ad dell’Eternit di Rubiera). Ma il gip del tribunale di Reggio, su richiesta del pm, ha archiviato tutto: "Impossibile attribuire agli indagati la responsabilità per le morti delle persone offese a causa della inalazione dell’amianto per la mancanza di accertamento del nesso di causalità tra il momento della incubazione e quello della morte", dicono i magistrati.
Perché il mesotelioma – spiega Antonio Romanelli referente del ’Registro Mesoteliomi Maligni’ regionale – ha questa caratteristica: una lunghissima latenza, anche 40 o 50 anni dal momento dell’esposizione e può capitare anche a persone che hanno avuto esposizioni modeste. Per questo è molto difficile determinare quale sia il momento esatto che può aver innescato la malattia. Soprattutto se, come nel caso della Icar, si sono avvicendati molti datori di lavoro. Di certo, le archiviazioni lasciano sempre perplessi; quando, soprattutto, ci sono persone che soffrono e perdono la vita".
Esprime "tutta la sua delusione" anche Davide Vasconi, responsabile di Afeva, l’associazione ’Familiari e vittime amianto’ di Reggio. "Non sapevamo di questa archiviazione – commenta –. Ma la giurisprudenza dell’amianto è costellata di delusioni. Ora dovremo studiarne le motivazioni per valutare il da farsi". Di certo, annuncia, "noi non ci arrendiamo, nonostante tutto ci remi contro. Non è affatto semplice: la delusione sulle prime sentenze, il fatto che sia passato molto tempo, il fatto che i familiari abbiano elaborato il lutto anche per il loro benessere, fa riaprire ferite enormi. Ma se avremo la possibilità ripartiremo con cause singole, questa volta però fatte molto bene. C’è delusione, ma anche voglia di approfondire".