
Sopra: Anthony assieme ai suoi compagni in Ghana. In basso a sinistra: mentre racconta la sua storia in una scuola dell’Appennino. In basso a destra: in divisa con la sua corriera Seta
Reggio Emilia, 6 giugno 2025 – “Siamo partiti in 42 su un pick-up, mentre attraversavamo il deserto. Ci hanno avvisato fin da subito: chi cade, non ci si ferma, lo lasciamo morire nella sabbia”. Questo è solo uno dei passaggi più drammatici della storia di Anthony Yankey, ragazzo nato in Ghana nel 1986. Oggi vive sull’Appennino reggiano, a Castelnovo Monti, e di lavoro fa l’autista delle corriere per Seta. Ma prima, ha attraversato l’inferno.
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Partiamo dall’inizio. Che infanzia ha avuto?
“Sono nato in Ghana in una famiglia poverissima, ero l’ultimo di dieci fratelli, tutti maschi. Vivevamo con i nostri genitori in campagna, lontano da tutti. Mio padre lavorava nei campi con il nostro aiuto, ma faceva fatica a mantenerci. Non potevamo nemmeno permetterci la scuola: ogni giorno cercavamo solo qualcosa da mangiare”.
Come è riuscito a studiare?
“Grazie a un benefattore, un ’buon samaritano’ come lo chiamavo io. Ha visto qualcosa in me e ha pagato i miei studi fino alle superiori. Ma poi, per cattive influenze, ho mollato tutto per cercare lavoro. Avevo 23 anni”.
Di cosa si occupava?
“Subito ho lavorato come insegnante. Guadagnavo 28 euro al mese, pochissimi. Poi la mia proprietaria di casa mi ha trovato un impiego come benzinaio e lì guadagnavo un po’ di più”.
Stipendio più alto ma un giorno ha deciso di partire in cerca di miglior fortuna. Perché?
“Un amico tornato dalla Libia è passato a fare benzina. Mi ha detto che là si guadagnava molto, anche se era un Paese molto pericoloso per gli immigrati irregolari”.
E lei...?
“Ho pensato: vado, faccio i soldi e torno. In una settimana ho deciso, non l’ho detto neanche a mia madre, non me lo avrebbe mai permesso. Ho preso tutti i soldi che avevo da parte e sono partito”.
Com’è cominciato il viaggio?
“Bus per il Burkina Faso, poi da lì, dopo due settimane d’attesa, siamo saliti su pick-up strapieni: 42 persone, 40 uomini e 2 donne. Ci spostavamo di notte nel deserto, ballando sulle zone di confine per non essere scoperti. L’ultimo tratto le ’guide’ ce l’hanno fatto fare a piedi, da soli, per due giorni. Alcuni sono morti in mezzo alla sabbia per il troppo caldo. Io avevo i piedi sanguinanti e le scarpe rotte. Ma sono sopravvissuto...”.
Siete arrivati in Libia?
“Sì, ma ad accoglierci c’era la polizia. Ci avevano detto di evitarla ma alcuni di noi stavano troppo male. Siamo andati lo stesso e ci hanno arrestato”.
Dove vi hanno portato?
“In prigione, sotto terra. Una stanza di 20 metri quadri, 63 persone dentro. Un bagno turco in un angolo, senza luce naturale. Ci sono rimasto 8 mesi, senza mai vedere il sole”.
Immagino non fosse semplice la vita lì dentro...?
“Era terribile. Si mangiava una volta al giorno, alle 16. Poi basta. Nessun diritto, solo torture disumane. Sono riuscito a scappare solo dopo aver corrotto una guardia. Sono fuggito di notte e poi ho trovato un’altra comunità di Ganesi in Libia, che mi ha accolto. Lavoravo di nascosto come muratore e ho iniziato a mettere da parte dei soldi. Stava andando tutto bene in quel periodo, ma io ero sempre illegale e da un momento all’altro potevano riportarmi in carcere”.
È questo che l’ha spinta a lasciare la Libia?
“Sì. Nel 2011 Gheddafi aveva iniziato a utilizzare i migranti come arma contro l’Europa. Il governo ti incentivava ad attraversare il Mediterraneo, e così ho colto l’occasione. Non ho pagato nulla, solo circa 80 dollari per il salvagente”.
Com’è stato il viaggio verso l’Italia?
“Siamo saliti su una grande barca, più di 400 persone a bordo. Siamo partiti di notte e arrivati a Lampedusa due giorni dopo. Ci ha recuperato la guardia costiera”.
Cosa succede dopo lo sbarco?
“Ci registrano uno per uno, poi ci trasferiscono su una nave enorme. Da lì finiamo a Taranto, e infine in un campo profughi a Manduria (Puglia, ndr.), in piena estate. Quel periodo è stato il più duro. Mi sembrava di non essere in Europa. Eravamo in attesa che qualche Comune desse la disponibilità per ospitarci”.
E poi finalmente, l’arrivo a Cervarezza…
“Ci hanno messo su un autobus: Taranto, Bologna, poi l’Appennino. E così sono arrivato a Cervarezza. All’inizio ero deluso. Dopo tutto quel viaggio finire in un paesino sperduto in montagna non era quello che immaginavo. Ma col tempo ho capito che era l’inizio di una nuova possibilità. Negli anni ho girato diversi paesi e finalmente lo posso dire: è un posto sicuro”.
Ultima domanda: tra poco si voterà per il referendum e tra i quesiti c’è anche quello sulla cittadinanza. Qual è la sua posizione?
“Concedere la cittadinanza ad un immigrato dopo 5 anni è giustissimo, ma a determinate condizioni. Dovrebbe esserci un accompagnamento graduale prima di concedere tutti i diritti che hanno gli italiani”.