Appello del pentito ai Grande Aracri "Collaborate pure voi, la vita cambia"

Grimilde, il magistrato della Dda ha sentito Antonio Valerio: "Francesco era il referente della cosca. Poi il boss Nicolino attraverso una lettera incaricò il nipote Salvatore nel giorno delle nozze"

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di Alessandra Codeluppi

"Già che ci sono, dico ai Grande Aracri che, se volessero collaborare con la giustizia, conviene sempre: vi cambia la vita". Riferendosi alla famiglia di Brescello, a dirlo è Antonio Valerio, pentito di ‘ndrangheta dal giugno 2017, nel pieno del processo ‘Aemilia’. Ieri è stato sentito nel dibattimento di ‘Grimilde’, dove ha risposto come teste al pm della Dda Beatrice Ronchi. "Ho fatto parte della ‘ndrangheta sull’asse Cutro-Reggio-Brescello e la ‘polis Cutrello’", scherza sul quartiere del paese dove vivevano i Grande Aracri. Un altro ricordo della sua infanzia lo conduce a ‘Grimilde’: "I fratelli Oppido, Vincenzo e Gaetano, erano cugini di mio padre: negli anni Settanta frequentavano casa mia. Vincenzo prendeva appalti connessi alla consorteria". Gaetano Oppido, 73 anni, di Cadelbosco, è insieme al figlio 45enne Domenico, imputato in ‘Grimilde’ per la maxitruffa al Ministero da oltre due milioni ottenuti attraverso una sentenza falsificata. Valerio racconta dei suoi arresti per spaccio nei primi anni Novanta e della latitanza, "quando si rafforzò il mio rapporto con Nicolino Grande Aracri", boss di Cutro. Nel 1998 Valerio va a Brescello: "Volevo far presente che ero tornato in libertà e rafforzare il legame mafioso. In un bar della piazza incontrai i fratelli Francesco e Rosario Grande Aracri e Alfonso Diletto. Allora il punto di riferimento della ‘ndrangheta era Rosario, poi divenne Francesco". Accenna all’omicidio di Giuseppe Ruggiero, a Brescello nel 1992: "Per ucciderlo andai nella casa di Rosario, vicina alla sua. Francesco era a conoscenza di tutto". Il pentito racconta l’ascesa dei suoi figli: "Nel 2001 vennero nella mia casa in via Ferravilla a Reggio Salvatore Grande Aracri e suo fratello Paolo (imputato in ordinario, ndr). Mi portarono un’imbasciata (cioè un messaggio, ndr) di Giuseppina Mauro, moglie di Nicolino Grande Aracri, allora in carcere: bisognava uccidere ‘Petti Palumba’, soprannome di Salvatore Arabia. Incontrai a Brescello Francesco e Rosario, che mi suggerirono di coinvolgere i fratelli Roberto e Salvatore Turrà nella ‘ndrangheta. Allora la Reggia di Rivalta era disabitata: la individuammo come base per nascondere i killer. Ma non riuscimmo a eliminare Arabia a Reggio: lui fu poi ucciso a Cutro nel 2003". Il pentito accenna a un incontro a Gualtieri "nel 2005 per far entrare nella falsa fatturazione Salvatore Grande Aracri e Diletto. Tramite i miei due cugini io fatturavo 100mila euro al mese". Il "brand Grande Aracri - così lo chiama - era diventato importante, ma dopo la condanna in ‘Edilpiovra’ era sotto i riflettori degli inquirenti. Così Francesco mandò avanti Salvatore e Diletto. Insieme ai miei cugini comprarono la discoteca ‘Italghisa’". Parla di "bolla papale" del boss di Cutro per benedire il 42enne a referente della cosca: "Nel 2006 Salvatore si sposò a Montecchio nel ristorante ‘Millefiori’ dei fratelli Vertinelli. Quel giorno arrivò una lettera dello zio Nicolino, allora detenuto: Salvatore era il suo nipote preferito a cui noi avremmo dovuto fare riferimento, dandogli potere ‘ndranghetistico".