Chi lanciò le bombe sui carabinieri? Spunta il nome del br Lauro Azzolini

La procura di Torino riapre l’inchiesta sul sequestro Gancia. Saranno ascoltati gli ex terroristi reggiani

Nel riquadro Lauro Azzolini in un’immagine del 1988

Nel riquadro Lauro Azzolini in un’immagine del 1988

Era davvero lui, Lauro Azzolini – reggiano di Casina, oggi 79enne con residenza a Milano, dissociato e libero – il brigatista rosso che il 4 giugno del 1975 lanciò le bombe a mano contro i carabinieri?

Quella figura misteriosa che riuscì a scappare per i campi di Cascina Spiotta di Melazzo, in provincia di Alessandria, dopo il crepitio dei mitra e i colpi delle carabine?

Fu una mattina di sangue. I carabinieri trovarono quasi per caso, dopo l’incidente occorso nei paraggi a un giovane che si dichiarò "prigioniero politico" la prigione in cui i terroristi tenevano richiuso – a scopo di estorsione – il re dello spumante, Vittorio Vallarino Gancia.

I militari video due auto vicino a un casale che pareva abbandonato bussarono. Uscì l’Invisibile. Giovane, dal volo scavato. Chiese cosa volessero. Poi strappò con i denti la linguetta della bomba a mano. I carabinieri vennero investiti dallo scoppio, poi iniziò il conflitto a fuoco. La Cagol e l’Invisibile scapparono su due auto, ma trovarono la strada sbarrata dalla Fiat 127 dell’Arma e dall’appuntato Pietro Barberis, che fece fuoco.

Alla fine morirono in due: Mara Cagol, leader della colonna torinese e compagna di Renato Curcio e, dopo qualche giorno d’agonia, il maresciallo Giovanni D’Alfonso. Il tenente Umberto Rocca – investito subito da una granata – perse un avambraccio e un occhio, il maresciallo Rosario Cattafi restò ferito da alcune schegge. Gancia tornò in libertà.

La Procura di Torino ha riaperto l’indagine – proprio per dare un nome al fuggitivo – dopo l’esposto presentato circa un anno fa da Bruno D’Alfonso, il figlio del militare ucciso. Troppe le incongruenze e le piste lasciate cadere, come testimonia anche il libro "Brigate Rosse. L’invisibile", scritto dai giornalisti Berardo Lupacchini e Simona Folegnani.

I Ris ora cercano una risposta scientifica nel Dna lasciato sulla macchina da scrivere – rinvenuta nel gennaio del ’76 in un covo milanese – che l’Invisibile utilizzò per stendere una relazione sulla vicenda di Cascina Spiotta. Era un rapporto, come si fa in ambito militare, destinato ai capi dell’organizzazione: una minuziosa ricostruzione dell’accaduto.

La settimana prossima due ex brigatisti reggiani, affiancati dall’avvocato Vainer Burani, saranno ascoltati in qualità di testimoni dagli inquirenti, che hanno già sentito altri membri del nucleo storico.

Loris Tonino Paroli chiarisce subito che all’inchiesta non sarà di grande aiuto: "Io all’epoca ero in prigione", ci dice. "Non ne so assolutamente niente. Avevamo dei nomi di battaglia, nessuno sapeva niente", ribadisce, lasciando intendere che – in un’organizzazione che si muove nella segretezza – si poteva conoscere solo ciò che riguardava direttamente.

Ma perché rimbalza fin d’ora il nome di Lauro Azzolini? Perché dopo 47 anni, qualcosa, in questo muro di silenzio, si è incrinato.

Il tenente Umberto Rocca, quello che restò menomato, ha detto di conoscere il nome dell’Invisibile ("L’ho visto ai processi, viene da Reggio Emilia") ma di non aver mai informato l’autorità su consiglio del generale Alberto Dalla Chiesa: la sua sola testimonianza non sarebbe stata sufficiente.

Il giornalista Luca Fazzo, sul Giornale di ieri, ha invece raccolto la voce di Luciano Seno, l’ufficiale dei carabinieri che il generale Dalla Chiesa aveva messo a capo del team incaricato di dare la caccia ai brigatisti. "Ci convincemmo che il fuggitivo fosse Alberto Bonavita. Adesso a quanto pare si è scoperto che era un altro del nucleo storico, Lauro Azzolini", ha affermato Seno.

E Azzolini? Non rigetta le accuse, non dice ’voi siete matti’, cioé quello che tutti diremmo sapendoci estranei a una vicenda così grave. "Dico solo che di quella operazione si assunse per intero la responsabilità l’organizzazione Brigate rosse", dichiara. Parole che assomigliano a un’ammissione.

Bruno D’Alfonso, figlio della vittima, aspetta qualche certezza: "E’ importante che dopo tanti anni ci sia ancora qualcuno disposto a scoprire qualcosa e a risolvere il caso. Non so quanto, ma oggi sicuramente la verità è meno lontana".