Cinquantaquattro anni di carcere La Corte conferma il 416 bis

Grimilde, primo grado per sedici imputati del rito ordinario. Pene pesanti per i Grande Aracri. Ma ci sono anche cinque assoluzioni. L’impianto accusatorio regge, ma viene dimezzato

Migration

di Alessandra Codeluppi

L’accusa di essere appartenenti all’associazione mafiosa ha retto in primo grado sia per Francesco Grande Aracri - 62enne fratello del boss di Cutro Nicolino Grande Aracri - sia per il figlio 32enne Paolo. Il padre è stato condannato a 19 anni e mezzo: per lui il pm della Dda Beatrice Ronchi ne aveva domandati 30, definendolo "il vertice della ‘ndrangheta in Emilia". È il verdetto pronunciato ieri dalla Corte dei giudici, chiamata a giudicare i sedici imputati del processo ‘Grimilde’ con rito ordinario, per i quali il pm della dda Beatrice Ronchi aveva chiesto in tutto 123 anni di condanna per gli illeciti contestati alla famiglia Grande Aracri di Brescello e ai loro presunti sodali. Il collegio, presieduto da Donatella Bove, a latere Silvia Guareschi e Matteo Gambarati, ha escluso per Grande Aracri il ruolo apicale all’interno della consorteria. Motivo per cui l’avvocato difensore Carmine Curatolo chiederà che "sia tolto dal regime 41 bis". Lo ha condannato per alcune intestazioni fittizie di società - immobiliari San Francisco e Santa Maria, Viesse che gestiva una pizzeria a Parma - con l’aggravante mafiosa, esclusa invece per altre due (Holding e Generali edile) e fatta cadere anche per quanto riguarda lo sfruttamento di manodopera, del quale è stato riconosciuto colpevole, nel cantiere da 350 appartamenti a Bruxelles. È stato invece assolto da altre accuse di intestazioni fittizie, ad esempio per la Nusa Marmi. Per altre è intervenuta la prescrizione. Per il figlio Paolo Grande Aracri, la condanna è a 12 anni e 2 mesi (chiesti 16 anni e 6 mesi) per mafia: è riconosciuto responsabile, come il padre, per alcune intestazioni fittizie legate all’Eurogrande costruzioni. Nonché delle minacce al pizzaiolo che non doveva fare concorrenza a Brescello, ma senza l’aggravante mafiosa, non riconosciuta neppure per la vicenda della forzata cessione con metodi violenti a cui fu costretto l’ex titolare del bar ‘Carpe diem’ a Parma. Sono cinque gli assolti. Spiccano Omar Costi ("Il fatto non costituisce reato") e Luigi Cagossi ("Non ha commesso il fatto"), entrambi condannati in ‘Aemilia’: secondo il giudici di primo grado non sono responsabili dell’usura a una coppia di Cadelbosco. E poi Salvatore Caschetto dall’accusa di aver ottenuto un certificato medico per rimandare la sua testimonianza nel processo a carico di Salvatore Grande Aracri, fratello di Paolo. Assolto pure Nunzio Giordano ("Il fatto non costituisce reato") da un’intestazione fittizia per la Nusa Marmi. Idem ("Il fatto non costituisce reato") per Domenico Brugnano per la stessa accusa riguardante la Holding. Per questi tre imputati erano state chieste pene tra i 2 e i 6 anni. Condannati invece Domenico Oppido, quest’ultimo ex consigliere comunale, e il padre Gaetano, per uno degli affari più succulenti attribuiti al clan mafioso: la truffa ai danni del ministero delle Infrastrutture da 2 milioni e 200mila euro, arrivati sul conto della loro azienda attraverso una falsa sentenza – attribuita ad un giudice del Tribunale di Napoli – che imponeva il pagamento della somma come risarcimento per l’esproprio di un terreno (in realtà inesistente) di proprietà della ditta degli Oppido. Per il figlio Domenico 6 anni e 4 mesi; per il padre Gaetano 3 anni e 8 mesi. Tutti i Passafaro, parenti di Carmelina, moglie di Salvatore Grande Aracri, sono stati conosciuti responsabili delle intestazioni fittizie, ma senza aggravante mafiosa, e con pena sospesa. Sono stati ritenuti colpevoli dello stesso reato, sempre senza aggravante mafiosa, anche Roberto e Matteo Pistis, padre e figlio. Disposta la confisca di diverse società, rigettata la richiesta per la casa di Paolo Grande Aracri. Diversi difensori hanno espresso soddisfazione, tra cui Vincenzo Belli e chiara Carletti (oer Costi).