Dimissioni, ambizioni e speranze professionali Galli: "Oggi i giovani hanno bisogni diversi"

Il vicepresidente Unindustria Reggio: "Sono cambiati i filtri culturali: il solo nome dell’azienda non basta più, ci si vuole sentire utili"

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di Giulia

Beneventi

Claudio Galli, si parla molto di ‘Great Resignation’ e dimissioni volontarie in aumento. In qualità di vicepresidente di Unindustria Reggio, lei come la vede?

"È un tema complesso e si rischia di gonfiare un fenomeno che in realtà non rappresenta un reale problema. Veniamo da due anni di turnover bloccato nelle aziende, sia sotto il profilo delle assunzioni che dei licenziamenti. Il gap davvero drammatico è quello dal punto di vista professionale".

Più drammatico dell’aumento di dimissioni volontarie?

"La cosiddetta ‘Great Resignation’ da noi è a un decimo rispetto allo sviluppo che ha avuto negli Stati Uniti. Per qualcuno della mia generazione, un ’Boomer’ come si suol dire, le dimissioni erano un cambiamento apocalittico, alla pari del divorzio. Ora la situazione è meno congelata perché i mestieri mutano alla velocità della luce, e questo porta a vedere i giovani come delle persone senza spirito di sacrificio".

Invece?

"Sicuramente la qualità della vita è cambiata rispetto alle generazioni precedenti, ma tante volte la ‘X’ viene messa anche da persone della mia età, che vogliono andare in pensione e finire di lavorare prima. Certo però, le dimissioni di un giovane sono quelle che fanno più male".

Cosa pensa dello smart working?

"Penso che abbiamo accelerato le possibilità di lavorare da remoto, ma non ci chiediamo se questo avrà assoluti riflessi positivi o no".

Secondo lei?

"Io sento spesso dire, da voci sindacali, che lo smart working è da contrattare, con l’obiettivo del diritto alla disconnessione. Certo, questo diritto c’è, ma il punto è il dovere alla disconnessione dai device in generale, nella vita, mentre la funzione dello smart è proprio quella di mantenere un legame con la dimensione lavorativa. Io ne vedo molti, di ‘paladini dello smart’".

Su quest’ultimo punto la sento un po’ ironico.

"Anch’io credo nello smart working, ma se la logica deve essere: “Usiamolo così le donne stanno a casa e mentre lavorano cucinano anche”, allora andiamo indietro di 30 anni. I salti avanti, se fatti male, portano a conseguenze micidiali".

Per lei ha senso lasciare un lavoro perché il contratto è precario?

"Un contratto precario di solito ce lo si tiene stretto per farlo diventare meno precario, posto che “precario” è un termine usato dal sindacato anche per i contratti in staff leasing, che sono a tempo indeterminato. Diverse generazioni, tuttavia, hanno diverse soglie del dolore e filtri culturali diversi".

Filtri del tipo?

"Vedo tanti ragazzi oggi fare le cose con spirito di sacrificio…se ne vale la pena però. Questo è il filtro culturale che hanno i ’Millennials’ e noi non avevamo: mollare senza esitazione le cose percepite come sbagliate è giusto; non sempre conviene, soprattutto all’interno di realtà molto strutturate e quindi piuttosto lente. Alla fine ad avere ragione sono sempre le generazioni che arrivano dopo, più giovani, ma è un processo che richiede tempo e pazienza".

Le realtà più strutturate però non sono le stesse, se non le uniche, in grado di dare stabilità? È un gatto che si morde la coda.

"L’errore più drammatico compiuto nei confronti delle generazioni più recenti è non aver favorito la creazione di una visione globale, di tutte le possibilità che ci sono. Fornendo fatti ed esperienza, non chiavi di lettura. Le opportunità sono meno sicure rispetto a quelle che avevamo noi, ma sono anche di più. I giovani poco volenterosi li avevamo anche noi. Non sarà, allora, che oggi le cose sono troppo facili?"

Addirittura.

"Voglio dire che forse non si scappa, in realtà, da un contratto precario, ma dalle cose troppo facili. Forse bisogna rendere il lavoro più piccante e cominciare a far prendere le decisioni ai giovani, a dare loro impegni, delega e autonomia"

Che scatto bisogna fare?

"Noi continuiamo a perseguire una standardizzazione dei processi: dopo aver detto che non va bene il taylorismo ancora lo rincorriamo, e questo non può che portare a delle conseguenze. Un mondo sempre più meccanico e automatico attira sempre meno. Serve più pepe, che magari brucia, ma ci vuole. Anche in questo le nuove generazioni sono diverse: il nome dell’azienda non basta più, serve sentirsi utili. Dove, come e cosa contano sempre meno del “perché”; quelli bravi lo chiamano “purpose”. In tal senso le imprese che trattano le persone come si deve non hanno problemi, e non credo sia un caso"

Questo però implica una miopia gestionale delle aziende, strutturate e non.

"Possiamo anche dire che qualche azienda è miope attenzione però a banalizzare: permette di affrontare un problema con una battuta, ma non è il modo di risolverlo. E anche vero che le nuove generazioni pretendono un riconoscimento sul valore del proprio lavoro, la mia generazione molto meno; così come oggi serve maggior chiarezza sui prossimi passaggi del percorso professionale".

Vale a dire?

"Le faccio un esempio: quando avevo 25 anni e lavoravo in Lamborghini, con un contratto a termine di 1 anno e ancora in prova, mi arrivò un’offerta molto allettante da altrove. Andai dal mio capo e lui, come feedback, mi disse: “Se il buongiorno si vede dal mattino, direi che andiamo bene”. Me lo feci bastare, e comunque scelsi Lamborghini. Dalla mia generazione in poi però, avere un’idea chiara dei prossimi step di carriera è diventato un elemento chiave. In questo le aziende spesso sbagliano, nel non sapersi adeguare alle nuove esigenze di chi lavora. A un certo punto allora ci sta anche, che qualcuno vada via".

Quindi lei non si allinea alla visione dei giovani laureati scansafatiche?

"Certo che no! In Lamborghini, quando ho iniziato, eravamo in tutto cinque laureati; competenze in azienda ce n’erano, eccome, ma di consapevolezza meno: parlare con un tornitore che ha la quinta elementare non è come confrontarsi con un ingegnere che ha studiato all’estero. Se passi tutto il tempo a predicare che qui non c’è futuro e che i giovani sono costretti a emigrare o a cambiare lavoro di continuo, poi non ti lamentare o sorprendere, se qualcuno ti ascolta e fa come dici".