L'epopea dell'imprenditore-Cowboy: «Ho assunto 350 giovani in quattro anni»

Enrico Grassi della Elettric80 si racconta: dalla Coppa Italia col rugby ai successi imprenditoriali

Enrico Grassi nel suo studio

Enrico Grassi nel suo studio

Reggio Emilia, 27 giugno 2019 - «TUTTO si può fermare, tranne la forza di un sogno». Dall’imprenditoria allo sport, fino alla vita quotidiana. Una frase che è come un mantra per Enrico Grassi, presidente fondatore di Elettric80 e Bema, aziende con sede a Viano, specializzate nell’implementazione di soluzioni logistiche automatizzate ed integrate per imprese della grande distribuzione.

«Nel 1980 giocavo a calcio, in Prima Categoria nell’Albinea. Mi feci male a un piede e restai a casa per giorni – racconta l’ormai mitico ‘Cowboy’ –. Lavoravo alla ceramica Iris e prendevo in busta paga 560mila lire al mese. Un amico mi chiese di fargli uno schema elettrico e accettai. A lavoro fatto mi diede un assegno di un milione. Capii che forse stavo sbagliando mestiere…». 

Il gruppo oggi ha filiali in Australia, Brasile, Cile, Cina, Emirati Arabi Uniti, Francia, Gran Bretagna, Messico, Polonia, Russia, Svezia, Stati Uniti e Thailandia. Grassi non è solo un capitano d’impresa, ma anche il patron del Valorugby, la principale squadra della palla ovale di Reggio Emilia, che quest’anno ha conquistato una storica Coppa Italia.

Oggi nel Gruppo lavorano oltre 800 persone di cui più di 200 in giro per il mondo; nel 2004, anno in cui Elettric80 è stata riacquistata dalla proprietà, erano «solo» 160. 

Enrico Grassi
Enrico Grassi

PRESIDENTE, dopo la conquista della Coppa Italia col Valorugby è ancor più sulla bocca di tutti…

«E dire che questo sport non lo seguivo nemmeno. Ma quando ho scoperto i valori che incarna, mi è scattata la molla. Il terzo tempo è magia: dopo le botte, si mangia assieme. Ed è un gioco intelligente dove conta lo spirito di squadra, molto più che nel calcio».

La Reggio Audace la accoglierebbe a braccia aperte. Lo stesso Stefano Landi l’ha invitata a considerare l’idea di una polisportiva.

«Non gareggiamo con calcio e basket. Vogliamo essere un esempio sociale, conquistare la città e far crescere il settore giovanile. Il calcio è bello, ma la Reggio Audace non rientra nei nostri piani. Ci saranno persone più competenti per rilanciarla».

I giovani sono fondamentali per lei, dallo sport alla sua azienda.

«Se tutti avessero investito come noi sui giovani, avremmo un tessuto produttivo molto più ricettivo. Negli ultimi quattro anni abbiamo assunto 350 persone in tutto il mondo. Poco tempo fa ho avuto una soddisfazione impagabile…».

Ossìa?

«Una lettera spedita dai genitori di un mio dipendente che lavora all’estero. Parole stupende, di fierezza di un padre e una madre nei confronti del loro figlio realizzato anche grazie a noi».

Avete un legame speciale col territorio.

«Noi abbiamo investito tanto. A Viano c’è una sala civica multimediale da 120 posti a disposizione della collettività. Tutti gli eventi sono seguiti dal nostro staff marketing e comunicazione, anche i convegni universitari».

A proposito di università. Le aziende reggiane richiedono più figure tecniche specializzate. Ora Unimore sta allargando offerta formativa. Basterà?

«La formazione dei nostri studenti è elevata, spesso superiore al resto del mondo. Ma le aziende devono impegnarsi a creare opportunità concrete che permettano ai giovani di conoscere e innamorarsi del lavoro che andranno fare».

Tanti imprenditori spesso si lamentano della tassazione e scaricano tutto sulla politica.

«Ho un cavallo di battaglia: ‘Nessuno verrà salvato, quindi salviamoci da soli’. Non conosco nessuna azienda privata che abbia avuto successo grazie all’aiuto dello Stato. Oggi la comunicazione e la tecnologia permettono di intercettare i mercati, basta avere voglia di andarli a cercare, ma bisogna alzarsi un po’ prima dal letto…».

Qualcuno però direbbe che è colpa della crisi.

«Noi non l’abbiamo sentita, ma non è solo fortuna. Il mercato va preso, compreso e sorpreso. Sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male, non bisogna mai smettere di investire».

E lei quando si fermerà?

«Quando mi stancherò. Ma io e il mio socio Vittorio Cavirani (dg del gruppo, ndr) abbiamo già predisposto il passaggio generazionale ai nostri figli».

Le piace l’etichetta di Cowboy?

«Sì. È il modo di vestirmi che sento più mio. Una volta un imprenditore mi ha presentato al suo staff; per rispetto mi sono vestito in modo convenzionale. Quando mi ha visto mi ha detto: ‘vai a cambiarti che non ti ho raccontato così… Sii genuino’. Questo mi ha dato la certezza che si viene valutati per quello che si è capaci di fare, non per come ci si presenta».