"Era possibile rifiutare il patteggiamento"

L’avvocato Giovanna Fava ha assistito Cecilia Hazana nella causa di separazione "Genco poteva essere condannato mantenendo la misura cautelare"

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di Alessandra Codeluppi

Avvocato Giovanna Fava, membro del Tavolo interistituzionale di contrasto alla violenza contro le donne, come ha conosciuto Juana Cecilia Hazana Loayza?

"L’ho seguita per la relazione sentimentale che lei ha avuto con un uomo e da cui era nato un bambino. Si erano trasferiti in via Melato, dove pagavano un affitto di 700 euro che Cecilia da sola non sarebbe riuscita a sostenere. Poi la loro storia si era interrotta: un anno fa l’ho presa in carico sul piano civile per le questioni riguardanti il figlio e la casa. Si era arrivati a un decreto che stabiliva che il bambino rimanesse con la madre e che il padre lo incontrasse e desse una somma per il mantenimento. L’ex convivente non era più disposto a pagare l’affitto ed è tornato nella casa della madre, mentre Cecilia è rimasta in via Melato. Quattro mesi fa la giovane ha fatto arrivare la mamma dal Perù perché le desse una mano".

Sapeva della sua storia con Mirko Genco?

"Mi aveva detto di averlo conosciuto. Mi sembrava bello che lei avesse trovato fiducia in una nuova persona. Prima di novembre ho di nuovo visto e sentito Cecilia: mi ha riferito che con lui era finita e che si era rivolta alla polizia di Stato".

Quando l’ha incontrata per l’ultima volta?

"Una settimana fa. Era contenta perché era stata assunta come operatrice sociosanitaria con un contratto biennale. E poi aveva trovato un posto all’asilo nido per il figlio. Stava anche cercando con urgenza un piccolo appartamento, con un affitto meno caro di quello di via Melato. Pure io mi sono attivata per cercarlo tra le mie conoscenze. Cecilia mi era sembrata tranquilla e proiettata sul futuro. Ma lei era così: una ragazza positiva, che non si piangeva addosso e che ha sempre cercato di risolvere i suoi problemi".

Un bambino ha perso la sua mamma...

"Insieme all’avvocato del padre stiamo cercando di tutelare il figlio, mantenendo i rapporti con la nonna che lo teneva mentre Cecilia era al lavoro. Stamattina (ieri, ndr) l’ho incontrata: si è detta disponibile a rimanere in Italia per aiutare il bambino".

Lei è storicamente impegnata nella protezione delle donne. Il Codice rosso basta a proteggerle?

"Il Codice rosso è intervenuto solo sul piano penale e ha dato impulso alla punizione, ma da solo non basta. La Convenzione di Istanbul prevede che, quando si è chiamati a difendere una donna, si debbano rispettare le quattro P: prevenzione; protezione; punizione e politiche integrate. Qui è saltata la protezione. Una delle lacune di questo sistema è che l’uomo che dichiara di seguire un percorso di recupero per chi maltratta gode di uno sconto di pena. Ma fare il percorso non basta per avere il ‘Green pass antiviolenza’: non garantisce che l’uomo non sia più pericoloso".

Quale può essere l’alternativa?

"Una messa alla prova, il cui percorso dev’essere terminato e poi dev’esserci una figura che garantisca che l’uomo abbia compreso il disvalore della propria condotta. Diversamente, lui fruisce di uno sconto anticipato di pena che però non tutela la vittima. A volte si pensa che bastino le denunce e il Codice rosso per risolvere, ma è una falsa sicurezza".

Carcere a parte, quale misura può impedire all’uomo di aggredire di nuovo?

"Si può riflettere sull’uso del braccialetto elettronico, ma c’è carenza di questi dispositivi e poi occorre che siano monitorati nelle centrali di polizia. Di certo non è possibile che una donna rimanga chiusa in casa per paura".

Si poteva fare una scelta diversa rispetto al patteggiamento con pena sospesa subordinata al corso antiviolenza?

"Sì. Si poteva rifiutare il patteggiamento. E condannarlo mantenendo la misura".

Cosa le resta dell’incontro con Cecilia?

"Lei veniva nel mio studio con il bambino. Lei non era sprovveduta, ma intelligente, istruita e consapevole. Ora sento il dolore perché non siamo riusciti a evitare la sua morte".