Reggio Emilia, firme false per le elezioni. "Condannate Capelli"

Elezioni 2014: il pm chiede otto mesi di reclusione in abbreviato. La difesa: "Era in buona fede"

Al centro Andrea Capelli, assieme agli avvocati difensori

Al centro Andrea Capelli, assieme agli avvocati difensori

Reggio Emilia 18 gennaio 2019 - Il magistrato ha chiesto la condanna per Andrea Capelli, capogruppo del Pd in Comune, e Rita Manfredi, a cui è contestato il reato di falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Per quest’ipotesi, a a carico anche di Ramona Nadia Cretulescu (che ha scelto il rito ordinario), i due sono giudicati con il rito abbreviato: davanti al giudice Sarah Iusto, ieri, conteggiando lo sconto di un terzo della pena a partire da un anno, il pm in udienza ha chiesto otto mesi di reclusione sia per Capelli sia per Manfredi. La vicenda riguarda la raccolta firme per la formazione dell’elenco numero 6 dei sottoscrittori della lista circoscrizionale di Centro democratico

Di fronte a Capelli, presente in aula, gli avvocati Nicola Tria e Giulio Cesare Bonazzi hanno fatto un’arringa con sfumature diverse nella richiesta finale. «Il pm ha ragione a metà, perché è pacifico che quel foglio contenesse firme false e disconosciute, che certamente Capelli autenticò, ma non ha considerato l’elemento psicologico», ha esordito Tria che lo individua nello «spirito di servizio» e nell’«assenza di interesse a comportarsi male»: «Il segretario del partito gli chiese di mettersi a disposizione per la raccolta delle firme e lui lo fece».

Il legale ha spiegato che Capelli era sempre presente durante le occasioni di raccolta firme, nelle quali, però, si mettevano insieme, diversi moduli rimandando a un secondo momento l’autentica, che richiedeva anche il recupero di un timbro custodito in municipio. Quei fogli, però, venivano lasciati nel frattempo in custodia a Matteo Riva o altri. «Capelli si fidava di Riva perché era responsabile politico della lista. E fu rassicurato sul fatto che i moduli erano quelli», aggiunge Tria ipotizzando «un errore o una manina che ha infilato un modulo tra quelli consegnati a Capelli», colpevole, secondo il difensore, solo di una «leggerezza, cioé non essere stato un autenticatore modello, o di negligenza, ma non certo di dolo». 

Il legale ha anche citato una sentenza del Consiglio di Stato del 2014 in cui l’autenticazione, proprio per mancanza di un timbro, era avvenuta dopo le sottoscrizioni. Rimarcando «l’assenza di consapevolezza», Tria ha detto che «Capelli ha tolto tempo a famiglia, lavoro e attività politica senza alcun tornaconto personale». Così ha chiesto in primo luogo l’assoluzione e in subordine le attenuanti generiche partendo dal minimo della pena «per evitare la drammatica tagliola politica della legge Severino», secondo cui se la pena fosse superiore a sei mesi si diventa incandidabili (ma solo in caso di sentenza diventata definitiva dopo tutti i gradi di giudizio). Bonazzi, con un tesi finale ancora più radicale di quella del codifensore Tria, ha chiesto l’assoluzione tout court «perché il fatto non costituisce reato». In apertura di udienza ha preso la parola Manfredi, difesa dall’avvocato Federico De Belvis, che ha chiesto l’assoluzione.