di Alessandra Codeluppi
Per la prima volta, da quando prese il volo per il Pakistan con sua moglie il primo maggio 2021, ieri si è ritrovato sotto lo stesso tetto coi suoi familiari. Non quello di casa, ma del tribunale. Di nuovo vicini, ma mai così lontani. E se a dividerli erano pochi metri, le distanze tra loro sono siderali, dopo 2 anni e 4 mesi in cui l’omicidio di sua figlia Saman ha alzato un muro tra ricordi, visioni e strategie processuali dei parenti imputati. che, come già è emerso, divergono. Shabbar Abbas è comparso ieri in aula nel processo davanti alla Corte d’Assise – presieduta dal giudice Cristina Beretti (foto in alto a destra), a latere Michela Caputo e i membri popolari – per la prima volta non più tramite il videocollegamento col Pakistan, ma di persona, a pochi giorni dall’estradizione.
Si è presentato non in abiti tradizionali del suo Paese, ma con una mise occidentale: polo color turchese, pantaloni scuri, capelli corti e i baffi di sempre. Fisicamente è apparso in buone condizioni, anche se chi lo ha incontrato in carcere a Modena in questi giorni racconta di averlo trovato molto scosso e di averlo visto piangere. Scortato dalla polizia penitenziaria, Abbas si è accomodato nel gruppo centrale di banchi (nella foto, Shabbar di spalle con la maglia azzurra: non ha dato il consenso ad essere ripreso in aula), affiancato dai suoi avvocati Simone Servillo ed Enrico Della Capanna. Davanti a lui siede Nomanukah Nomanulhaq; nella fila accanto, davanti c’è Danish Hasnain, dietro Ikram Ijaz, accompagnati dai rispettivi legali. Non c’è tempo, probabilmente nemmeno voglia, per uno sguardo tra loro: Abbas ha seguito tutta l’udienza a capo chino, in mezzo ai suoi difensori. Lui capisce abbastanza bene l’italiano, ma gli sfuggono comprensibilmente alcuni termini giudici e passaggi, che loro gli hanno spiegato con semplicità.
Mentre esce e rientra dall’aula, Abbas mantiene sempre un’espressione seria e compunta, sembrando impermeabile anche al folto gruppo di giornalisti, flash e telecamere che hanno gremito l’aula apposta per lui. Il padre di Saman ieri non ha parlato: dovrebbe essere sentito nell’udienza del 26 settembre, avendo dato il consenso a rispondere alle domande delle parti. Ma per lui lo hanno fatto a lungo i suoi difensori, che hanno chiesto di risentire 17 testimoni, soprattutto inquirenti e assistenti sociali, per sottoporli al controesame e per i quali sono state fissate nuove udienze ad hoc: "Non vogliamo appesantire il processo – ha detto l’avvocato Enrico Della Capanna rivolgendosi ai giudici popolari – Ma il mio assistito ha la legittima aspettativa che i testi siano sentiti nel contradditorio".
Poi, parlando con i giornalisti, lui e il codifensore Simone Servillo, hanno raccontato il punto di vista del loro assistito, per com’è emerso "nelle 9 ore di incontro che abbiamo avuto con lui in tre giorni", e spiegando che gli stanno man mano illustrando la grande mole di materiale emersa finora dal processo.
Gli avvocati Della Capanna e Servillo ribadiscono che lui si proclama "innocente": "Non ho mai pensato neppure lontanamente – ha detto loro – di uccidere mia figlia". Sollevano dubbi sul movente: "Se l’omicidio fosse stato d’impeto, sarebbe ancora valido il motivo dell’opposizione di Saman alle nozze forzate?". E anche sulla fuga: "Shabbar non se n’è andato all’improvviso. Il suo viaggio in Pakistan era programmato. Qualche giorno prima di comprare i biglietti, era andato a chiedere un preventivo". Pongono interrogativi anche sull’oggetto che lui, attorno alla mezzanotte del primo maggio 2021, aveva in mano e che è stato immortalato dalle telecamere: "Lui ci ha dato spiegazioni, ma al momento preferiamo non parlarne. Non siamo certi fosse lo zaino di Saman. Forse servirà una perizia".