L’indagine sulla mafia nigeriana: "Tutto è partito da un’overdose"

L’indagine sulla mafia nigeriana: "Tutto è partito da un’overdose"

L’indagine sulla mafia nigeriana: "Tutto è partito da un’overdose"

Emerge una tragedia sullo sfondo dell’inchiesta sulla mafia nigeriana nella nostra città, coordinata dal pubblico ministero della Dda Roberto Ceroni. L’aspetto inedito è emerso nel processo che vede imputati col rito ordinario nove uomini, assoldati nelle confraternite Eiye e Vikings, emanazione dei cult del Paese africano e in lotta tra loro per il controllo del territorio, con metodi molto sanguinari. "L’attività di indagine è nata da un caso di overdose. Dopo le intercettazioni, ha preso una piega diversa riguardante l’associazione": lo racconta Stefano Moscatelli, vicesovrintendente della squadra mobile della questura, che ha monitorato gli imputati anche prima che fossero sospettati di mafia. "Lavoro da dodici anni nella sezione antidroga. L’80 per cento di questi imputati era dedita allo spaccio". Poi, nel periodo in cui lui ha lavorato alle volanti, il poliziotto racconta di aver avuto a che fare con qualcuno di loro sulla strada anche per aggressioni. Molti di loro, insomma, erano già conosciuti: "Li abbiamo controllati più volte e arrestati". Le difese hanno chiesto a lui e a un collega come si sia arrivati a identificarli. "Abbiamo iniziato ad ascoltarli nell’ottobre 2018, per dieci mesi. Abbiamo individuato alcuni attraverso lo spaccio, altri grazie a verbali, testimonianze e anche intercettazioni. Uno di loro, Michael John Waine, disse: ‘Sono in questura’. Io scesi, e lui era proprio in caserma, dove stava facendo una denuncia". Moscatelli ha spiegato di avere ascoltato utenze che facevano intendere che il soggetto fosse collegato al clan, poi è stato dato un nome. Il pm ha precisato che "non tutte le intercettazioni erano al buio". "Abbiamo riascoltato le telefonate precedenti all’individuazione del legame tra numero e soggetto per capire se la voce era compatibile: è stato un lavoro doppio, triplo...". Oggi, cinque anni dopo, i due agenti dicono che non saprebbero identificarli dalle voci. Ma rassicurano: "Una volta identificato l’utilizzatore dell’utenza, abbiamo cercato di capire se la voce era sempre quella ed è stato così".

Alessandra Codeluppi