'Ndrangheta a Reggio Emilia, "Cutresi per bene, noi non ci stiamo"

La consigliera comunale Palmina Perri alla sua comunità: "Svegliamoci, è ora di dire da che partte stiamo"

Palmina Perri, 47 anni, in Sala del Tricolore con la fascia al petto

Palmina Perri, 47 anni, in Sala del Tricolore con la fascia al petto

Reggio Emilia, 11 novembre 2022 - "Ogni giorno scelgo di stare dalla parte giusta". Palmina Perri, questa frase è un po’ il motto della sua attività da consigliera comunale. E il riferimento alla lotta alla mafia non è puramente casuale...

"È così. Tre anni e mezzo fa sono entrata in politica proprio dopo l’eco del processo Aemilia. Ho deciso di candidarmi per accendere un riflettore realistico sulla comunità cutrese a Reggio, della quale oggi sono una fiera rappresentante in Sala del Tricolore così come di tutti i cittadini reggiani".

Dopo le tante sentenze, c’è però ancora poca voglia di parlare di ’ndrangheta. Nei giorni scorsi la pm della Dda Beatrice Ronchi nel processo ‘Grimilde’ ha ammonito la popolazione...

"È vero. Noi cutresi per bene siamo entrati in un guscio di difesa dal quale è ora di uscire. Oggi, dopo lunghi anni di sofferenza e di vergogna, è il momento di parlare di legalità. Di dissociarci a gran voce, di far capire chi delinque e chi no. Di scegliere – appunto per tornare alla mia frase del cuore – ogni giorno da che parte stare, di dirlo chiaro e tondo. Solo così possiamo mettere un punto e ripartire".

Un appello forte.

"Sì, anche se il silenzio in alcuni casi è comprensibile. Ci sono persone per bene che sono state toccate dalla vergogna per una reputazione familiare rovinata. Per chi ha avuto un fratello, uno zio, un cugino, un parente lontano coinvolto nelle inchieste, non è facile. Ma ora bisogna avere il coraggio di reagire".

Da cutrese come si è sentita quando scoppiò lo scandalo mafioso?

"Ferita e arrabbiata. Perché conosco la comunità, la bontà delle persone e posso capire anche l’onta di portarsi dietro la ’ndrangheta benché la mia famiglia, neppure parenti alla lontana, sia mai stata tocca anche solo de relato dalle inchieste. La cosca ha distrutto l’orgoglio di chi con grande sacrificio aveva superato il disagio economico dopo essersi trasferito a Reggio, costruendosi una casa e integrandosi nel tessuto sociale".

L’equazione ‘cutrese uguale mafia‘ da lì in poi è diventata un fastidioso clichè.

"Pensi che la battutina veniva fatta a noi avvocati cutresi persino dai colleghi... Questo è stato il colpo più duro da digerire. È come essere sprofondati in una botola, nel baratro della criminalità organizzata. Anche perché noi che veniamo da Cutro sappiamo di cosa si parla quando si dice ’ndrangheta. Avevamo già sviluppato gli anticorpi. Siamo stati cresciuti ed educati rispetto a con chi non fare affari. Poi, è sempre una questione di scegliere da che parte stare...".

Qual è stata la reazione immediata all’inizio dei processi?

"La chiusura. Le persone per bene erano amareggiate, sin da subito sapevano che sarebbero state associate e confuse con una parte di comunità che non è quella reale, quella laboriosa, quella che ha lasciato le proprie origini anche a 14 anni, per venire al Nord a fare i manovali. Questo è stato il più grande dolore che ha portato persino a non riuscire a dire: ’Io non c’entro nulla con quelli lì...’".

C’è stata però una sottovalutazione del fenomeno da parte degli stessi cut resi per bene secondo lei?

"Sì, anche se per noi era una questione lontana. Come se l’avessimo lasciata al Sud. E poi negli anni ’90 non c’erano gli strumenti di oggi. Inoltre, la ’ndrangheta si è molto evoluta. Magari arrivava il commercialista ben vestito a proporre un investimento, a offrire aiuto alle aziende nei momenti di crisi. C’è chi, anche in buonafede magari, l’ha vista come un’opportunità economica. Se una società arrivava col progetto o con l’appalto giusto, come si poteva capirne la natura criminale? La sottovalutazione secondo me sta più nella tipologia di investimento".

E la politica?

"Come tutta la comunità non era preparata a reagire, nell’immediato, a un fenomeno così violento e drammatico. A distanza di anni abbiamo maggiore conoscenza della mafia e stiamo reagendo con tutti gli strumenti a disposizione".

Lo strumento più importante?

"La cultura. Sto spingendo molto sul centro studi – che ho l’onore di presiedere, con doppia sede a Reggio e a Cutro – dedicato a Diego Tajani, lo statista e magistrato, il primo nella storia a denunciare le infiltrazioni mafiose in un famoso discorso in Parlamento alla fine del 1800. Ecco, la maggioranza dei cutresi reggiani e non solo, vogliono essere il paese di Tajani, non della ’ndrangheta. Ma siccome finora sono stati in silenzio, sembrano in minoranza. Ad oggi si è parlato solo dei criminali, ma dobbiamo avere il coraggio di invertire questa tendenza. Sono pronta a fare l’elenco di centinaia di persone cutresi, da medici a volontari, da professionisti a commercialisti fino ad avvocati, che fanno il bene della città".

La cultura della legalità è rivolta soprattutto alle nuove generazioni. Come vivono la criminalità organizzata?

"C’è un fortissimo senso di appartenenza alle proprie origini cutresi, ma anche a quelle reggiane: le mie due figlie sono nate a Reggio e si sentono soprattutto di questa città. Ma la discriminazione e i luoghi comuni ci sono ancora. Insegno Diritto al Gobetti di Scandiano. Quante volte ho sentito ragazzini rivolgersi a coetanei calabresi: ‘Quindi tuo padre è un mafioso? Ci spara in bocca’? Allora lì intervengo e faccio una bella lezione di legalità...".