"Ricorreremo alla Corte dei diritti dell’uomo"

L’avvocato di Giuseppe Iaquinta (condannato a 13 anni) valuta l’ultima carta: "La vicinanza alla cosca è stata confusa con militanza"

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di Alessandra Codeluppi

Potrebbe andare ai supplementari la partita giudiziaria per Giuseppe Iaquinta, l’imprenditore reggiolese per il quale la Cassazione ha confermato 13 anni per associazione mafiosa nel processo ‘Aemilia’.

Il figlio Vincenzo Iaquinta, ex calciatore campione del mondo, ha di nuovo urlato contro i giudici, questa volta sui social: "Mio padre è stato condannato senza prove".

L’avvocato e professore Vincenzo Maiello pensa a ulteriori mosse: "Non si può considerare membro della cosca chi non ha mai fatto atti di militanza nell’associazione come il mio assistito: la vicinanza è stata confusa con l’intraneità. Dopo la lettura delle motivazioni, valuteremo un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e ulteriori investigazioni difensive".

Intanto è proseguito anche ieri l’intenso lavoro dei carabinieri di diversi comandi provinciali per eseguire gli ordini di carcerazione legati alle condanne diventate definitive. Alla caserma di Corso Cairoli ieri mattina si è presentato spontaneamente Francesco Scida (1963), di Reggio, condannato a 3 anni e 4 mesi per trasferimento fraudolento di valori: collaborava con Gianni Floro Vito e Giuseppe Giglio, poi diventato collaboratore di giustizia, nelle fatturazioni false. Lui, difeso dall’avvocato Antonio Piccolo, è stato accompagnato nel carcere della Pulce. I componenti della famiglia di Giglio, ora in località segreta e un tempo residente a Montecchio, hanno seguito diversi destini. Giglio, considerata la mente economica del clan, era stato condannato a 6 anni, coi benefici perché pentito, nel rito abbreviato a Bologna. Il padre Francesco Giglio (1947) e il fratello del collaboratore, Antonio Giglio (1978), entrambi con pena confermata a 2 anni e 8 mesi, sono stati accompagnati dai carabinieri di Crotone nel carcere di Catanzaro. I due erano accusati di intestazione fittizia di quote societarie con l’aggravante mafiosa: quest’ultima, confermata, li porta dietro le sbarre.

"Purtroppo, come talvolta avviene nei processi con tanti imputati, si è verificato il solito problema di incapacità o impossibilità da parte dei giudici di merito e di legittimità di verificare le singole posizioni - dichiara l’avvocato difensore Fausto Bruzzese -. I miei assistiti erano semplici prestanome di società gestite da Giglio. L’aggravante è scattata perché, secondo l’accusa, erano consapevoli dell’azione mafiosa di Giglio: ma io non la condivido, i miei assistiti sono stati di fatto utilizzati".

L’avvocato lamenta: "Il padre Francesco è un uomo anziano con problemi di salute. Così come il figlio non era mai stato sottoposto a misura cautelare. Eppure sono stati prelevati subito, alle 3 della notte di domenica, nella loro casa". Argomentazioni che solleva anche l’avvocato Domenico Noris Bucchi, che difendeva l’imprenditore Mirco Salsi, tre anni per tentata estorsione (senza aggravante mafiosa): "In generale nei cosiddetti maxiprocessi pare che non ci sia il modo né, forse, se non da parte dell’avvocatura, la volontà di approfondire adeguatamente le singole posizioni, in particolari quelle più marginali. Diversamente da quanto normalmente viene fatto nell’ambito di un processo ordinario. Ho la sensazione - rileva - che spesso processi così dispersivi disvelino l’impossibilità di adottare criteri di scrupoloso garantismo".

Nel 2020 la moglie di Giuseppe Giglio, Maria Curcio (1973), aveva scritto una lettera alla Corte d’Appello, rimarcando che lei aveva spinto il marito nella scelta di collaborare e che aveva rotto ogni legame con Montecchio. Lei, che lo aveva seguito nel programma di protezione in quanto stretta familiare, ora si trova in località segreta: si è vista confermare 3 anni e 2 mesi dalla Cassazione. La segue l’avvocato Luigi Li Gotti, storico difensore di pentiti come Tommaso Buscetta: poiché Curcio ha un presofferto di tre mesi, e la pena va dunque sotto i tre anni, è stata depositata una domanda di misura alternativa. È invece caduta l’aggravante mafiosa per Tania Giglio, figlia del pentito: per lei la pena è stata alleggerita dalla Corte da 4 anni e mezzo a 3 anni. Stesso discorso per il marito Antonio Vertinelli (1985). La coppia resta fuori e può chiedere una misura alternativa.

Niente carcere, per ora, per l’imprenditore reggiano Omar Costi, condannato in via definitiva a 9 anni e 8 mesi per estorsione: oggi deve sottoporsi a un intervento chirurgico programmato.