Sequestro di beni per 10 milioni ai Muto Sigilli ad aziende, ville e auto di lusso

Operazione della Dda per i fratelli Antonio e Cesare considerati affiliati di spicco della cosca Grande Aracri. Sottratti alla ’ndrangheta anche Maserati che il condannato di Aemilia aveva comprato per il figlio. .

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di Daniele Petrone

Un altro duro colpo inflitto alla mafia. La Dda sequestra beni per dieci milioni di euro ai fratelli Muto; Antonio, classe ’71 – già condannato in via definitiva nel processo Aemilia a otto anni e sei mesi per associazione mafiosa – e Cesare, detto "Rino", classe ’80, condannato nell’abbreviato del processo Grimilde a due anni e dieci mesi (non ancora passata in giudicato), entrambi residenti a Gualtieri, conosciuti come "Ciampolini" nella locale di ’ndrangheta. Antonio è considerato uno dei più "brillanti produttori di profitto per gli affiliati".

L’operazione rientra proprio in quest’ultima inchiesta, portando a mettere i sigilli a ben cinque aziende cinque aziende operanti nel settore degli autotrasporti ed immobiliare, del valore complessivo di tre milioni di euro; 6 immobili (tra cui un capannone industriale sede delle aziende di autotrasporti, quattro abitazioni – tra cui ville di lusso – e un fabbricato in corso di costruzione), acquistati ad un prezzo complessivo di tre milioni euro. E ancora un parco di 92 veicoli tra cui 28 trattori stradali, 43 semirimorchi, 5 autobus, 4 furgoni, 2 autocarri, 10 autovetture tra cui una lussuosa Maserati (intestata a una delle aziende, la Muto Logistica&Trasporti, ma in esclusiva disponibilità di uno dei figli di Antonio) e due Volkswagen (tra cui una Touareg e una Golf utilizzata da un altro dei figli di Muto, portata via in maniera fraudolenta a un autonoleggio di Monaco di Baviera, in Germania, dopo essere stata presa in leasing), un motociclo ed un quadriciclo, acquistati ad un prezzo complessivo di oltre 1 milione e mezzo di euro. E ancora 18 conti bancari le cui giacenze sono tuttora ignote.

La misura di prevenzione è stata chiesta dalla pm della procura distrettuale antimafia di Bologna, Beatrice Ronchi ed eseguita dai carabinieri del Ros assieme ai militari del comando provinciale di Reggio. I sequestri sono avvenuti tra la provincia reggiana, ma anche tra Parma, Mantova e Crotone. Dalle indagini emerge come i fratelli Muto gestissero attività imprenditoriali, formalmente intestate a prestanome, accumulando patrimoni personali illeciti. I Muto erano stati colpiti da un‘interdittiva antimafia nel 2013, ma due mesi dopo, secondo gli inquirenti, hanno costituito la Cospar, società di trasporti e viaggi turistici (che portava anche diverse scolaresche della zona in gita), intestata al prestanome Salvatore Nicola Pangalli, ingegnere di origine crotonesi, accusato di transitare i proventi in una società cartiera.

Nell’inchiesta vengono confermati i rapporti tra i fratelli Muto, Giuseppe Giglio e i fratelli Vertinelli, tutti condannati nel processo Aemilia. Nelle quasi trecento pagine d’ordinanza vengono riportate anche le confessioni dei pentiti della cosca Grande Aracri, da Antonio Valerio a Giuseppe Giglio fino a Salvatore Angelo Cortese. "In Calabria erano morti di fame senza soldi. Si sono arricchiti grazie ai rapporti con la consorteria", dice quest’ultimo a sugellare l’impianto accusatorio della Procura della Dda. La quale ha motivato così la richiesta di sequestro di beni: "Le risorse delle società, da tempo messe a disposizione del sodalizio criminale, potrebbero a breve tornare nella disponibilità della ’ndrangheta, essendo peraltro Cesare Muto attualmente in libertà. Una grave situazione che desta allarme".