De Carlo: "C'è una mafia letteraria. Ho sofferto, ma ora mi sento libero"

Lo scrittore ha presentato oggi alla libreria All'Arco ‘L’imperfetta meraviglia', in un incontro condotto dal Resto del Carlino. Tantissimi gli appassionati accorsi

Andrea De Carlo intervistato da Benedetta Salsi del Resto del Carlino (foto Artioli)

Andrea De Carlo intervistato da Benedetta Salsi del Resto del Carlino (foto Artioli)

Reggio Emilia, 18 novembre 2016 - «Io finisco sempre per preferire il cono alla coppetta. Forse è un residuo un po’ infantile... Chissà». E sorride, di nuovo. Semina empatia e ne raccoglie a piene mani, quel romanziere capace di attraversare indenne 35 anni di letteratura; lui, che ha venduto milioni di copie, tradotte in ventisei Paesi; che ha fatto appassionare alla lettura adolescenti oggi trentenni, le loro madri e pure i nonni. Andrea De Carlo, 63 anni, nato a Milano e ora ispirato dalla Liguria («vivo vicino a Camogli, amo i colori, i sapori, quella geografia»), oggi è stato ospite alla libreria All’Arco (FOTO) per presentare il suo ultimo libro, L’imperfetta meraviglia (edito da Giunti) in un incontro condotto dal Resto del Carlino. All'incontro sono intervenuti tantissimi appassionati e lo scrittore ha risposto alle molte curiosità dei presenti.  De Carlo, in questo libro il gelato è una metafora della vita, della ‘meraviglia imperfetta’, come lei la definisce. Perché? «Perché non è una condizione permanente. È uno stato transitorio, o si riesce a coglierlo mentre c’è o si scioglie e svanisce. È questa l’imperfezione, come del resto tutta la vita. Forse stupisce di più che uno stato di incantamento, di gioia, di sentimenti particolarmente belli si possa consumare. Ma è lì l’imperfezione di tutto». Ma vale comunque la pena viverla, l’imperfetta meraviglia, a costo di mettersi in crisi?  «Una delle riflessioni che c’è dentro questo romanzo è che spesso diventiamo, per varie ragioni, insensibili alla meraviglia. Perché ci occupiamo di altro, oppure perché costruiamo degli schermi. Perché la meraviglia si manifesti bisogna che ci sia qualcuno che è in grado di intercettarla, altrimenti è una cosa che succede inavvertita».  Ci sono descrizioni molto approfondite in questo romanzo: il mondo del rock, la preparazione del gelato. Troisi, in ‘Ricomincio da tre’ si chiederebbe: uno scrittore alla fine scrive sempre di sé?  «Be’ il gelato è una mia passione, fin da piccolo. poi mi sono documentato. E la musica rock da sempre fa parte della mia vita: la suono, la ascolto. È ovvio che in qualche modo si finisca a parlare di sé, come fa il lettore mentre scorre le pagine. Ma il motore che mi spinge, che muove la mia curiosità, è proprio parlare di altri».  Dopo 35 anni di carriera, qual è l’urgenza di scrivere ancora romanzi oggi? «L’urgenza è la sensazione di non aver detto l’ultima parola sui rapporti tra le persone, che è ciò che a me interessa di più. Nel frattempo c’è anche da dire che il mondo cambia e rispetto a 35 anni fa è un mondo diverso. E questo mi spinge a raccontarlo». In Italia esiste questa sorta di snobismo della critica verso gli scrittori di successo, che forse anche lei ha subito, nonostante l’introduzione di ‘Treno di Panna’ fosse firmata da Italo Calvino. «Certamente Calvino mi ha accreditato per i primi due romanzi: pubblico limitato e fantastiche recensioni; poi di colpo il mio pubblico è decuplicato e sono diventato uno scrittore commerciale. Per fortuna nel corso degli anni ho trovato anche critici che mi seguono e apprezzano il mio lavoro. Oggi non mi posso lamentare. Ma certamente nella transizione da scrittore di nicchia a scrittore per un pubblico nutrito è scattato l’assioma: se uno vende moltissimo non è uno scrittore di qualità». C’è anche un ruolo della politica in questo: a un certo punto a uno scrittore si chiede di veicolare un messaggio, un ideale? «Io, da progressista, non sono mai stato militante. Questa è un’altra cosa che certamente si paga. C’è anche una mafia in quel senso, una mafia letteraria che ti garantisce consenso se ne fai parte. Se stai fuori invece o vieni visto con sospetto o sei un nemico da ostracizzare». Si riconosce, invece, nel suo incedere, il più grosso privilegio di un essere umano: la libertà di fare. «È un elemento al quale non potrei mai rinunciare: essere libero e avere una mente indipendente che quindi mi porta a giudizi non conformi a ragioni di utilità. E quello che ho scoperto è che ci sono tante persone che condividono il mio stesso spirito. È un rapporto, anche con i lettori, tra persone che in un qualche modo si somigliano». Le sue collaborazioni impressionano: Fellini, Antonioni, Einaudi; poi un’esperienza con la danza, la regia cinematografica, programmi tv. Ma poi perché si torna sempre al primo amore? «Queste avventure forse mi hanno portato con ancora più convinzione alla scrittura, dove mi sento più libero. Poi la ragione per cui ho fatto altre esperienze è anche la convinzione che vivere in un mondo chiuso per me sarebbe la morte. Ho bisogno di conoscere altri linguaggi: la mia formazione è stata fatta da romanzi, film, musica, canzoni».  Un film e un libro assolutamente imperdibili, nell’arco di una vita? «Mi è capitato di rileggere la prima versione della Madame Bovary di Flaubert, che è un libro straordinario. Sul film continuo a pensare a 8 e 1/2 come a un’opera incredibile. Che continua a folgorarmi anche a distanza di anni». Terra fertile, l’Emilia Romagna. Come la descriverebbe? «Mi piace molto lo spirito delle persone e anche i luoghi. Mi ha sempre fatto simpatia l’Emilia, credo che abbia una centralità emotiva, caratteriale. Per me è sempre stato un baricentro dell’Italia, un punto di equilibrio fra tratti nordici e più del sud. Perché qui riconosco un’apertura e un calore umano, un modo di godersi la vita, i rapporti, la socialità, le città in cui si vive: riconosco un maggior godimento. E mi piace».