L'autista di Falcone sopravvissuto a Capaci: "Girano troppi soldi attorno all'antimafia"

L'uomo di fiducia del magistrato ammazzato da Cosa Nostra il 23 maggio 1992 a Rubiera per presentare il suo libro 'Stato di abbandono'

Giuseppe Costanza (foto Davide Messori)

Giuseppe Costanza (foto Davide Messori)

Rubiera (Reggio Emilia), 2 febbraio 2018 - «FALCONE diceva sempre che la mafia non è tanto la gente che ti spara, ma soprattutto quella che ti emargina, quella che ti lascia solo».

Gli occhi di Giuseppe Costanza non stanno fermi un secondo. Occhi che hanno visto più di quanto una coscienza possa trattenere, prima di impazzire. Lui, che è sopravvissuto alla strage di Capaci, costretto a stare zitto per un tempo impossibile da raccontare («in 24 anni non sono mai stato invitato alle commemorazioni ufficiali; i morti puoi ricordarli, dei vivi non sai che fartene, sono scomodi»), l’altra sera sul palco del teatro di Rubiera ha voluto parlare.

Era in quella Croma bianca Peppino, il 23 maggio 1992. Autista personale di Giovanni Falcone, suo unico uomo di fiducia per otto anni. Una riga di curriculum che da sola basta a spiegare il senso di una vita intera. Autista del giudice ammazzato da Cosa Nostra con quintali di tritolo; cento metri di A29 sbriciolati in 30 secondi.

«E non sapete quante volte mi sia sentito in colpa per non essere morto. Quante volte mi abbiano rinfacciato che se fossi stato io alla guida lui ci sarebbe ancora. Ma Falcone faceva così: sua moglie soffriva il mal d’auto e quando viaggiavano assieme lui si sedeva al volante per stare al suo fianco. Io dietro, in mezzo ai due sedili. Il tragitto da Punta Raisi era sempre così».

HA raccontato di Capaci, della sua emarginazione («quando sono rientrato al lavoro mi hanno messo a fare le fotocopie»), della sua lotta per la dignità («volevo che mi fosse riconosciuta l’invalidità, un indennizzo per il mio ruolo, per quanto avevo fatto in tutti quegli anni»), di quell’attentato che per lui è soltanto un grande depistaggio.

«Capaci è una montatura. Vorrei sapere la verità prima di morire: avrebbero potuto ammazzarlo a Roma Falcone, camminava da solo, senza scorta, perché fare tutto questo trambusto in Sicilia? Tutti quei morti? Così potevano dare la colpa ai manovali, spostare l’attenzione dai colletti bianchi della Capitale. Così era più facile dire ‘l’ha ammazzato la mafia’. Ma quell’organizzazione era troppo perfetta per dei braccianti come Riina o Brusca, non erano menti raffinate in grado di organizzare un attentato del genere. Lì è stato trovato esplosivo militare. Questo voglio che mi spieghino: da dove arrivava, chi lo ha portato, chi ha ordinato la sua morte, una settimana prima che diventasse il procuratore della Direzione Nazionale Antimafia».

Peppino nel 1992 aveva 45 anni, da otto era l’uomo di fiducia e unico autista di Giovanni Falcone. Non lo mollava mai, sempre al suo fianco negli spostamenti; perché quel magistrato, «che non era una persona normale, non si fidava di nessuno, non voleva neanche la scorta in auto, per essere libero di parlare al telefono».

Non contavano orari, pasti da saltare, figli (tre, piccoli) cui rimboccare le coperte. «Un uomo così non lo puoi lasciare solo, era il motore che trainava tutti gli altri. E siccome lui non smetteva mai di lavorare, neanche a casa, bisognava lavorare assieme a lui».

Nessuno voleva fargli da autista. Perché in fondo, lo sapevano. «La paura, con quella bisognava convivere. Ce lo sentivamo che prima o poi la bomba sarebbe arrivata. Ma non ce l’aspettavamo lì, non in quel modo».

Giuseppe Costanza è uno di quei protagonisti scomodi della storia che non ha paura di parlare. Ha messo tutta la sua rabbia in un libro, ‘Stato di abbandono’, edito da Minerva («non prendo un soldo da queste pagine, va tutto in beneficenza»), scritto a quattro mani con Riccardo Tessarini.

E negli ultimi anni ha trovato la rinascita, dopo decenni passati nell’oblio e nell’umiliazione («non sapevano più cosa farsene di me»). Gira il Continente («non la Sicilia») per raccontare ai ragazzi della sua esistenza.

«Girano troppi soldi attorno all’antimafia e io accuso la sorella del giudice, Maria Falcone, che ha fondato un’associazione in nome del giudice, di non avermi mai invitato a nessuna delle commemorazioni ufficiali in più di vent’anni – ha scandito con forza dal palco dell’Herberia, nell’ambito del progetto Legalità e cittadinanza responsabile, al fianco del sindaco di Rubiera Emanuele Cavallaro –. Non mi è mai venuta a trovare, non mi ha mai ascoltato. Nemmeno la Commissione antimafia: mai convocato. Hanno fatto male. Io però voglio parlare, soprattutto ai ragazzi. Dovete sapere, perché siete voi la nostra salvezza. L’antimafia vera è questa: parlare tutti i giorni, non far dimenticare, raccontare in ogni luogo chi era Giovanni Falcone; perché anche qui, dove si è insediata la ’ndrangheta, soltanto voi giovani potete estirpare questa malapianta».