“La mafia se c’è non ci disturba. Grande Aracri? Una persona educata”

Brescello, gente spazientita: “Diamogli un taglio, è una montatura” VIDEO Ecco cosa pensano i cittadini IL COMMENTO La verità in fretta

La statua di Peppone nella piazza di Brescello (Foto Lecci)

La statua di Peppone nella piazza di Brescello (Foto Lecci)

Brescello (Reggio Emilia), 1 ottobre 2015 - «La percezionE sociale del pericolo di inquinamento mafioso della società a Reggio Emilia è più basso che in Sicilia».

Francesco Maria Caruso, presidente Tribunale Reggio Emilia

Due turisti tedeschi fotografano il carro armato davanti al museo di Peppone e don Camillo. Il centro di Brescello (video) è come un set cinematografico che non chiude mai. Musei bar ristoranti negozi di souvenir, tutti vivono sulle storie di Giovannino Guareschi, che proprio qui sono diventate film. Ma non sono più i tempi di Duvivier, il regista che ha fatto conoscere al mondo questo «paesino» sul Po reggiano.

Non è per le migliaia di turisti che si parla di Brescello, oggi. Ma per quel giudizio pendente sull’amministrazione, che come Finale Emilia rischia di essere sciolta per mafia. Un primato, in questa regione. A settembre 2014 le dichiarazioni del sindaco Marcello Coffrini, civico sostenuto dal Pd. «Lui è uno molto composto, educato, ha sempre vissuto a basso livello».

Così il primo cittadino ha descritto Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino e residente qui da anni, condannato per mafia con sentenza definitiva nel 2009, oltre tre milioni di beni confiscati a luglio. A gennaio, Brescello entra nell’inchiesta Aemilia con l’arresto di due cutresi, che poi diventeranno quattro. A giugno, la decisione del prefetto di mandare gli ispettori. Che hanno chiesto una proroga. Insomma per il verdetto c’è tempo.

Ma qui la gente – che è scesa in piazza per difendere il sindaco e il buon nome del paese – ha già deciso: tutti innocenti. Con dichiarazioni per lo più anonime o ripensamenti. «No scusi, tolga il nome perché poi... Può cancellare quella frase? Sa quando le ho detto, ‘casomai Brescello può essere stata usata dalla ’ndrangheta come dormitorio’? Non vorrei che...». Ci mette la faccia la giovane Elena Benassi, presidente della fondazione ‘Paese di don Camillo e Peppone’, museo da 35mila visitatori all’anno. «Siamo sconvolti. Tutto il mondo ci conosce come il simbolo della lotta dura ma poi del rispetto forte per l’avversario, e la morale è sempre la stessa, cercare il bene della comunità. E ora... Ma è giusto che il sindaco non si sia dimesso. Ha fatto solo una leggerezza».

«La mafia? Se c’è non ci disturba. Ho avuto un’attività in centro per vent’anni, nessuno mi ha mai chiesto niente. Francesco Grande Aracri è una persona carina, molto educata, molto gentile. Guardi che lo pensano tutti quelli che lo conoscono». La signora, ex commerciante, prende un caffè con le amiche nel bar della piazza. E parla proprio come il sindaco. Dimostra di non sapere nulla di condanna e sequestri. Obietta: «Esistono anche gli errori giudiziari».

Un’amica la corregge: «In procura non saranno mica impazziti! Io comunque non voglio sapere niente, non sono un questurotto. Cose loro. Non voglio casini, già abbiamo meno turisti». Un’altra, seccata: «È ora di darci un taglio con questa storia, l’hanno gonfiata apposta. Mai avuto a che fare con la mafia. Decideranno di sciogliere il Comune? E noi lo teniamo anche così. Il sindaco l’ho visto nascere, è un ragazzo, ha peccato d’ingenuità. E poi sa chi li scioglie i Comuni? Quelli che ci dicono ‘non ci sono soldi per fare le visite’. Ma per i marocchini e gli albanesi sì...». Voltandosi indietro. Ottobre 92, finti carabinieri uccidono in un agguato Giuseppe Ruggiero, 35 anni, cutrese trapiantato a Brescello. Guerra di mafia, 23 anni fa.

Ma ormai nessuno se lo ricorda più, quel delitto. Nel quartiere dei calabresi – qualcuno dice ‘Cutrello’ – la gente si sente sotto assedio. Tutte belle case, anzi ville. «Ma ce le siamo fatte da soli, un po’ alla volta – rivendica con orgoglio una vicina di casa di Grande Aracri –. Quando siamo arrivati qui, negli anni 90, siamo stati in affitto. Appartamenti vecchi, cose di seconda mano per risparmiare. E i nostri mariti si sono spaccati la schiena, il sabato e la domenica». La cognata: «Quando siamo arrivati, non ci volevano dare nemmeno la residenza. Avevano paura di aiutare i meridionali. Adesso con gli stranieri, subito soldi e casa... Ma a noi, non ci ha regalato niente nessuno».