Manca, 40 anni di matrimonio con il ring

"Ho iniziato a 16, ma a 7 ero già fissato. Ora alleno i ragazzi. Le poesie? Ho quasi smesso: più conosci il mondo più ti passa la voglia..."

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Quarant’anni di boxe. Valentino Manca più che un pugile è un marchio di fabbrica dello sport reggiano. Cresciuto sul ring, Manca ora è uno dei due tecnici della Reggiana Boxe Olmedo, che dopo appena un anno di vita già vanta un campione europeo e uno italiano entrambi under 22. Ma la sua storia parte da lontano.

Manca, da quanto mastica la boxe?

"Ho iniziato che avevo 16 anni, ora ne ho 56. Mia madre non voleva che iniziassi prima, ma a 7 anni già ero fissato. Ho dei Super8 a casa dove si vede che mi mettevo in guardia. Mi informai per il karate, ma costava troppo. Mia mamma era da sola perché nel dopoguerra si era trasferita qui dal Veneto e si era separata. La boxe, invece, non mi è mai costata una lira. All’epoca c’era Bruno Camurri, andai in palestra una volta e fu amore a prima vista. Allora costava 10mila lire, mia madre mi diede qualcosa e io racimolai il resto in monetine e le portai in ufficio. Pochi giorni dopo me le restituirono".

Quando iniziò a fare sul serio?

"Quando arrivò Cavallari. Camurri era anziano e andò in pensione. Il primo match fu a Casina con un ragazzo che aveva già 15 incontri alle spalle. Presi una gran legnata...".

Cosa ha scoperto in una palestra di boxe che non c’era da altre parti?

"Io sono un po’ un oriundo, ho parenti dappertutto e arrivai da vero immigrato a Reggio. Con mia madre vivevamo nelle vecchie case popolari in via Compagnoni, dove c’era una storia forte. Mia nonna prima viveva nel Popol Giost, giusto per capirci... Non avevo grande disponibilità economica. Ma la palestra era il posto dove non c’erano differenze. Anche se all’epoca non esisteva il pugilato amatori, c’erano agonisti più qualche ’ospite’ parente di qualcuno".

Quanti match ha disputato?

"Direi un centinaio tra dilettante e professionista".

C’è stato un punto di svolta?

"Quando da dilettante trascorsi il servizio di leva nel gruppo sportivo. Sono cresciuto in quel momento: avevo già un buon record ma lì ho fatto il salto di qualità. Il mio rammarico fu quando mi chiamarono le Fiamme d’Oro e non ci andai. Avevo 18 anni e non capivo nulla. Ma riprendere tutto daccapo, dopo essermi creato nuovi legami a Reggio, non me la sentivo".

Qual è il match più importante della sua carriera?

"Gli Europei nel ‘94 con Javier Castillejo per il titolo dei superwelter. Lui poi fu campione del mondo rimasto imbattuto per tanti anni, un vero fenomeno. E io ci provai davvero, persi alla terza o quarta ripresa ma diedi tutto me stesso>.

Come fu accolta la sua prestazione?

"Dopo il match, a Madrid mi fermavano per strada. Vi racconto un episodio. Stavo girando per un centro commerciale, quando mi avvicinarono due gorilla enormi. ’Chissà cosa ho fatto’, pensai. Invece mi dissero che il direttore del negozio mi aveva visto dalle telecamere interne e chiedeva se potevo salire per fare una foto con lui. Incredibile".

In Italia ha mai vissuto qualcosa di simile?

"Assolutamente no, lì è un altro mondo. Ricordo che su El Pais il giorno dopo c’era la prima pagina con la foto del match".

Oggi lei è infermiere, quando ha scelto questa professione?

"Mi piaceva l’ambito sociale, ma non sapevo che fare. Così mi iscrissi alla Don Zefferino Jodi. Quando mi diplomai proposi al preside di fare qualche tirocinio. Andai in una scuola materna e ricordo che le maestre quando mi videro si chiesero cosa ci facesse uno come me lì (ride, ndr). I bambini si innamorarono di me, fu un’esperienza bellissima. Contemporaneamente al diploma, vinsi il primo titolo italiano professionisti".

Oggi lei cosa fa?

"Lavoro come infermiere, mi mancano sette anni per la pensione. In questo momento sono al Sert. Sono stato 15 anni al diagnosi cura".

Ambienti belli tosti. Le ricordano in un qualche modo le palestre di boxe?

"Ci sono collegamenti evidenti. Io, per esempio, ho alcuni ragazzi del Sert che vengono in palestra. Ci sono assistenti sociali che mi chiedono di farli venire. Non devono diventare campioni, ma stando in palestra non fanno altro. C’è un ragazzo che viene da noi, che fino al giorno prima dormiva per strada ubriaco. Son soddisfazioni grosse".

Ma tutto questo romanticismo della boxe “sport popolare” non è retorica?

"Io l’ho vissuto in prima persona. Ho sentito le differenze. E allora anche adesso in palestra insieme a Mike, cerchiamo di fare in modo che queste differenze non ci siano proprio. Un medico o un disoccupato per noi sono uguali: hanno una maglietta, un pantaloncino e un paio di guanti. E non ci si dà del lei. Ora abbiamo un ragazzo straniero che mi ha portato un assistente sociale. Diventati maggiorenni, spesso iniziano i guai perché non sono più seguiti dai servizi. Ma lui ora consegna le pizze la sera, non chiede nulla al Comune e viene lì da noi ad allenarsi per sentirsi parte di una comunità. E si sta risolvendo da solo, nonostante tutti i problemi che ha alle spalle. Altri li perdiamo, perché quando il metallo inizia ad arrugginirsi fatichi a volte a salvarlo...>.

Lei ha avuto un problema di salute pochi anni fa.

"Quando ero già atleta, avevo un lieve soffio sistolico. All’epoca non c’erano le strumentazioni di oggi, quindi mi davano sempre l’idoneità. Qualche anno fa ho fatto un elettrocardiogramma sotto sforzo, ne uscì un quadro non chiaro ma io li ricollegai a quel problema. Mi fecero ulteriori accertamenti: mi hanno trovato una insufficienza aortica. Il cardiologo mi disse che si poteva aspettare, ma poco tempo dopo sono quasi svenuto. Quindi mi hanno operato, e devo dire che ho rivisto tutta la mia vita perché la certezza assoluta di uscire dalla sala non l’avevo. Alla mia famiglia non avevo detto nulla, ma avevo lasciato scritto per l’eredità di mio figlio. Ho chiesto di averla quella valvola, me l’hanno data. Quando l’ho vista ho pensato “mi è andata bene se non mi è venuto un ictus”".

Cosa fa suo figlio?

"Ha 27 anni. E’ stato recentemente premiato per uno studio di ricerca sulla cimice asiatica. Ha studiato agraria, ha preso il master e l’abilitazione in biologia. A settembre inizierà a lavorare come professore. Una vita da precario insomma...".

Perché la chiamano il pugile-poeta?

"Quando ero più giovane mi piaceva la scrittura. Scrivevo racconti per ragazzi e poesie: c’era un telecronista della Rai che durante i match che disputavo recitava le mie poesie (ride). Ho fatto anche una pubblicazione, e avevo partecipato a diversi eventi di poesia anche a Reggio. Adesso ho quasi smesso: più conosci il mondo più ti passa la poesia".