Reggio Emilia, 22 settembre 2011 - «Se dovessi accettare le richieste, la mia azienda non ne ha abbastanza». Mirco Landini, 89 anni (accanto a lui il figlio Mirco junior, studente di giurisprudenza, che muove i primi passi in azienda) ci guida tra i capannoni e le torri di materiali della sua azienda, un impero che è sopravvissuto alla riconversione legata all’abbandono dell’amianto e che da anni conquista fette crescenti del mercato internazionale. Ma l’amianto è un fantasma maledetto: continua a tornare nei malati e mette a rischio anche la sopravvivenza di un’azienda che ormai ha cambiato la sua produzione.
«Il rischio per la Landini è di non riuscire a far fronte alle richieste di risarcimento danni e dover chiudere».
Cavalier Landini, parliamo dei risarcimenti per lavoratori morti per l’amianto respirato nella sua fabbrica.
«Ma il datore di lavoro che cosa ne sapeva? Chi sapeva allora che cosa faceva l’amianto?»
C’è un articolo del Codice civile, dice che il datore di lavoro è responsabile comunque della sicurezza.
«Quando sono partito io avevo un capannoncino a Castelnovo e si andava a prendere l’amianto a Balangero, nei sacchi di iuta. Quando finivamo di scaricare avevamo il naso pieno di amianto, ero così anch’io perchè scaricavo, avevo due o tre operai. Ma chi lo sapeva che era cancerogeno? Come si fa a dare la colpa al datore di lavoro?»
Lei dice: se proprio si vuol dare la responsabilità al datore di lavoro, che si seguano gli esempi europei.
«Perchè qui in Italia non c’è un limite. In Francia, in Germania, in Olanda hanno messo dei tetti massini. Si va da 50mila a 150mila euro».
E in Italia?
«Nelle ultime cause le richieste arrivano a 1,5 o anche 1,8 milioni. Solo tre cause ti portano via cinque milioni di euro, ma noi non abbiamo un utile così alto per far fronte a questi risarcimenti».
Che cosa succederebbe in caso di tagli?
«Se mi chiedono dei risarcimenti megagalattici io mi devo tirare indietro. Almeno che le richieste siano sostenibili».
Ma lei cosa prova pensando agli operai morti per aver lavorato nella sua Landini?
«Comprendo bene il dolore delle famiglie a cui sono molto vicino, io sono stato amico di molti operai>.
Come potevano gli industriali non sapere che l’amianto era ormai ritenuto pericoloso, anni prima che fosse vietato?
«Le prime circolari della nostra associazione che parlavano di un dubbio pericolo sono della fine degli anni Ottanta. Ma qui ci rifaciamo a casi che risalgono anche agli anni Sessanta...».
Quante sono le cause di risarcimento alla Landini?
«In tutto ora sono nove. Cinque sono in appello, hanno già la sentenza di primo grado».
Le cause di lavoro per l’80% sono immediatamente esecutive: come sono stati i risarcimenti?
«Una l’abbiamo transata a 650mila euro. La seconda a 150mila. Altre a 300mila».
Ma il picco delle malattie da amianto non dovrebbe arrivare tra il 2015 e il 2025?
«Alla Landini abbiamo avuto duemila, tremila dipendenti, è questa la grande preoccupazione per l’azienda. Viene fuori un numero esorbitante, è un problema da affrontare».
La soluzione?
«Fare normative di tipo europeo».
La paura dei risarcimenti ha cambiato la politica industriale della Landini in questi anni?
«Se prima decidevo di fare qualcosa, il giorno dopo il contratto era già firmato. Adesso, con pochi utili e questo spauracchio sul collo, ti fermi un attimo e metti da parte per i risarcimenti».
Ma i profitti fatti in tanti anni di produzione?
«Guardi che io ho sempre investito qui, nell’azienda. E questa è stata la mia fortuna. Qui ci saranno 79, 80 miliardi di lire, solo una macchina lastre costava dodici miliardi. Io non ho portato niente all’estero, è tutto qui. Anche la mia ‘‘villa’’ (indica la sua casa, al primo piano sopra il capannone degli uffici, ndr)».
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