Reggio Emilia, 18 dicembre 2011 - LA COOPERATIVA Orion dovrà pagare circa 370mila euro alla famiglia di un dipendente in pensione morto per mesotelioma pleurico. Secondo il giudice del lavoro Alessandro Gnani, infatti, l’uomo si sarebbe ammalato perché sarebbe venuto a contatto con l’amianto mentre lavorava nei cantieri della cooperativa Rinascente, poi confluita, tramite vari passaggi, in Orion.
Sentenza che la cooperativa ha già intenzione di impugnare in appello, perché ritenuta «ingiusta, superficiale e priva di fondamento giuridico» dall’avvocato difensore Roberto Bassi. Ma il risarcimento alla moglie e ai due figli è immediatamente esecutiva, per cui Orion dovrà sborsare i 370mila euro previsti.

LA MALATTIA era stata diagnosticata all’uomo nel novembre del 2004. Mesotelioma pleurico, tumore che, secondo la letteratura medica, sarebbe provocato da fibre aerodisperse di amianto.
Nel gennaio 2006, l’ex dipendente muore all’età di 75 anni. Nel 2008 comincia l’azione risarcitoria presso il tribunale del lavoro.

Secondo la famiglia, rappresentata dagli avvocati Alberto e Maurizio Zimondi, quella morte sarebbe da imputare all’amianto con cui il loro congiunto sarebbe entrato in contatto mentre lavorava per la cooperativa Rinascente, poi confluita in Orion, tra gli anni ‘60 e ‘72 quando l’uomo era capocantiere. In quel periodo, infatti, secondo quanto emerso nell’istruttoria del procedimento celebrato in sede civile, «l’azienda utilizzava fibra d’amianto — si legge nella sentenza «contenute sia nelle canne fumarie, sia nelle lastre di copertura dei prefabbricati».

Materiale che veniva tagliato, sprigionando polvere d’amianto, anche dall’ex dipendente. «Nessun teste l’ha mai visto personalmente tagliare l’amianto — si legge nella sentenza — ma ciò solo perché sono stati escussi testi che non lavoravano con lui. La conclusione affermativa sul taglio però può essere dedotta in via presuntiva». La vittima, infatti, ha svolto attività lavorativa anche manuale per lungo periodo (12 anni). Inoltre i lavori di taglio che venivano compiuti, secondo quanto scritto nella sentenza, senza «adottare nemmeno le più minime precauzioni come la mascherina».
Secondo il giudice Gnani, «l’esposizione prolungata per 12/13 anni è da ritenere la causa dell’evento lesivo». Sulle colpa, il giudice ritiene che la cooperativa non avrebbe adottato le misure minime per tutelare la salute dei propri dipendenti.

«L’AZIENDA non poteva non sapere — spiega l’avvocato Alberto Zimondi — La giurisprudenza sull’argomento è chiara: i rischi dell’amianto erano ampiamente noti già dagli anni ‘50 dove erano previste anche leggi per tutelare i lavoratori».
In aula gli avvocati della famiglia dell’ex dipendente hanno portato diversi testimoni, amici e colleghi del defunto, che hanno confermato come la cooperativa — similmente a quasi tutte le aziende edili di quel periodo — utilizzasse il cemento amianto, ritenuto un materiale di pregio. Inoltre è stata prodotta una perizia dove veniva evidenziata la correlazione tra il tumore e l’amianto, oltre al certificato Inail che attestava la malattia professionale, per cui la vedova percepisce tuttora una pensione.

LA DIFESA di Orion, curata dall’avvocato Roberto Bassi, contesta la sentenza su tutta la linea, precisando che l’Inail ha certificato come la cooperativa non sia a rischio amianto.
«Nessuno dei testimoni è stato in grado di dire in quale cantiere l’uomo aveva lavorato, come si fa a sapere se c’era amianto? — spiega Bassi — Inoltre nessuno l’ha visto mai lavorare o tagliare canne fumarie o coperture in eternit, che venivano sì utilizzate dalla cooperativa, ma per i cantieri industriali e non in quelli civili dove l’ex dipendente ha lavorato». L’avvocato Bassi fa anche notare come nell’istruttoria non sia stato presentato nessun documento che certifichi come l’ex dipendente, per via del lavoro, abbia subito una maggiore esposizione all’amianto rispetto ad altre persone (essendo il materiale molto diffuso e presente anche nei freni delle auto, tutti coloro che hanno vissuto negli anni ‘70 potrebbero essere entrati in qualche modo a contatto con la sostanza cancerogena).

Bassi sottolinea anche come non sia stata provata una responsabilità diretta della cooperativa, ma che quest’ultima non avrebbe fatto il possibile per evitare danni alla salute. «La sentenza del giudice, due pagine compresa l’intestazione — conclude Bassi — mi sembra poco approfondita e basata su una scarsa giurisprudenza, per altro, totalmente fuori luogo. In appello non reggerà».