Reggio Emilia, 15 gennaio 2014 - «Il mio bambino non c’è più», lo grida sulle scale la madre di Sylvester. Lo grida appena vede la schiera di ragazzi, amici del figlio. Sono arrivati in tantissimi e la casa non li contiene tutti, oltre ai parenti della grandissima famiglia di Sylvester.

Non sono più bambini, ma nemmeno adulti. Chi ha visto cosa è successo l’altra mattina ha il volto più segnato. La madre, Augustine si siede e chiede loro «come è successo?». Non sanno nulla, i genitori, «solo quello che hanno detto in televisione e sul giornale». Anche i parenti hanno poche informazioni e si rivolgono a quei ragazzini, poco più che bambini per sapere cosa è successo al loro Sylvester. Gli amici, in quella casa ricolma, raccontano quello che hanno visto; a far da traduttore c’è un cugino, che parla ghanese e un italiano dal sapore reggiano. Ascolta attenta, la madre, con il volto privo di espressione e gli occhi gonfi. Qualcuno non ce la fa, e corre giù dalle scale in lacrime, altri si abbracciano spontaneamente con zii e cugini ghanesi che non hanno mai visto prima.

Una delle tante cugine racconta che Sylvester voleva diventare ingegnere, magari lavorare in banca. Due lavori che nell’immaginario collettivo danno quella sicurezza economica che a lui è sempre mancata. E per diventare qualcuno studiava tanto: «Era bravissimo a scuola, il numero due della classe, prendeva tanti ‘otto’ e ‘nove’», dice una compagna. Nella stanza che divideva con il fratello e la sorella più piccoli sono impilati i libri con le pagine fruste, i computer e i quaderni. Le sue cose le hanno raccolte in due grandi sacchi, non sanno ancora cosa farne, i genitori, ma non li vogliono davanti. La camera è piena di pianto e gente, non ci sarebbe nemmeno il posto per appoggiare il terzo materasso di gommapiuma su cui dormiva il fratello di Sylvester.

«Ci aiutava tantissimo — parla il padre agli amici, che hanno invaso i corridoi e le due stanze della loro casa a Rubiera — E non solo quando ci dava una mano con la lingua. In casa non dovevo chiedergli di fare una cosa due volte». «Stava con sua sorella e suo fratello quando io andavo a fare la spesa», interviene la madre. Cantava nel coro della chiesa e suonava il piano. «Aveva una gran testa», dice la zia, scuotendo la sua. La canzone preferita di Sylvester era «I belive I can Fly» di Robert Kelly, un inno di speranza per chi cerca di raggiungere l’impossibile. «La cantava sempre, lo sentivi da una stanza all’altra», racconta una cugina.

L’eco dei singhiozzi nell’atrio delle scale li moltiplica. Saranno molte più di quelle le persone che andranno a dare un ultimo saluto a Sylvester, l’intera comunità di Rubiera si sta stringendo intorno alla famiglia. Quello che ora vogliono i genitori è il “nulla osta” per organizzare il funerale. Prima possibile. Forse già nella mattina di domani. Per ora è la confusione, non la rabbia, che li fa andare avanti e destreggiare tra avvocati, medici e forze dell’ordine. Non sanno nemmeno contro chi puntare il dito per ora e continuano solo a ripetere: «Non c’è più».

Ambra Montanari