Reggio Emilia, 24 giugno 2014 - Cinque ore per confessare. Raccontare la sua verità e dire di essere pentito. Cinque ore chiuso in una stanza al quinto piano della procura, dopo dieci giorni di isolamento in carcere in cui non ha visto altri che il suo avvocato. Cinque ore con gli occhi fissi su chi lo accusa di essere la mente di un’associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, al riciclaggio e alla truffa ai danni dello Stato. Marco Gibertini, il giornalista sportivo di 48 anni che ogni settimana entrava nelle case dei reggiani attraverso la tv, arriva da detenuto negli uffici di via Paterlini su una camionetta della polizia penitenziaria, scortato. Sono le 9,30 di ieri. Ne uscirà quasi alle 15. Polo blu, jeans, sneakers e sorriso beffardo d’ordinanza.

Chiuse alle spalle le porte dell’ufficio del sostituto procuratore Valentina Salvi, poi, inizia a snocciolare i dettagli di quel «vortice in cui era finito, del quale lui però non era il capo, solo un intermediario», sintetizza il suo difensore, Liborio Cataliotti.

Gli inquirenti parlano di un giro di false fatture per la bellezza di 33 milioni di euro: 13 sarebbero stati evasi dalle tasse. E, ieri, per cercare di ottenere gli arresti domiciliari, su consiglio del suo legale, Gibertini ha vuotato il sacco. «Anche perché l’indagine era meticolosa e molto chiara», chiosa Cataliotti.

Soltanto sul suo ruolo all’interno del meccanismo, il giornalista sportivo prende le distanze dalle ricostruzioni della procura: «Non ero io il capo capo del sodalizio — avrebbe detto —, bensì un tramite indispensabile tra chi emetteva le fatture e chi ne fruiva. Per me tenevo una percentuale veramente modesta rispetto al volume delle fatture che c’è stato».

Poi avrebbe parlato di quel «sodalizio preesistente e già operativo su altri territori, con la propria struttura e la propria ripartizione di ruoli. Un meccanismo oliato, non un’associazione a delinquere». Ma «sarà la magistratura a dargli un nome e a darlo anche ai suoi protagonisti», dice l’avvocato.

E sul perché Gibertini lo abbia fatto? «I fatti hanno preso il sopravvento su di lui, quello che era un escamotage trovato per mantenere la squadretta sportiva, è diventato un meccanismo infernale che lo ha avvinto sempre di più. E per tappare ogni volta un buco che veniva creato con un’operazione illecita precedente, si rinverdiva l’esigenza di compierne un’altra, questa è la mia idea», chiosa Cataliotti.

In pratica, per rientrare dell’investimento perso nell’operazione precedente, «ero chiamato a farne un’altra. E ancora un’altra», avrebbe detto lui davanti al pm.

Ma ora ‘Gibo’ si è pentito. «So che è facile pensare: ‘Si è pentito perché l’hanno scoperto’ — sottolinea il difensore —. Ma probabilmente qui siamo di fronte a una presa d’atto reale di quanto commesso, che è stato ampiamente confessato». Perché Gibertini, ieri, «ha ammesso quanto poteva ammettere e anche di più, perché volevamo i domiciliari. Perché si possa ricostruire una vita.

C’è un ostacolo, però, difficile da superare: i suoi familiari, che non hanno ancora dato la disponibilità ad aiutarlo. Da un paio d’anni il giornalista era separato dalla moglie, ma all’alba del giorno del suo arresto, il 12 giugno, i finanzieri lo avevano trovato nella casa coniugale. Ora, però, dopo tutto ciò che è accaduto lei non ha accettato di ospitarlo.

«A malincuore, devo dirlo, Gibertini non ha avuto la disponibilità da parte di un familiare a provvedere alle sue esigenze di vita fondamentali, in caso di arresti domiciliari. Confidavo, a fronte di una collaborazione a 360 gradi, di poter avanzare una richiesta di alleggerimento della misura, ma senza una dichiarazione da parte di un familiare — ‘gli daremo l’alloggio, gli porteremo da mangiare e le medicine, se necessario’ — questo mi è impossibile. Il codice di procedura prevede che chi chiede i domiciliari corredi la domanda anche della documentazione». L’indagato ha anche due sorelle e una anziana madre, con le quali l’avvocato non avrebbe ancora parlato.

Ieri pomeriggio, intanto, è arrivato il via libera del gip per le visite della moglie in carcere. Colloqui che lei stessa aveva richiesto. «Ora si chiariranno», taglia corto Cataliotti. «Siamo in una situazione di impasse che devono gestire assolutamente in famiglia». Ma i tempi sono strettissimi: l’istanza pendente al tribunale per la Libertà scade giovedì. «Le motivazioni per la richiesta di domiciliari sono state basate sulla collaborazione, ma se non ci sarà la disponibilità di un alloggio o di un parente che lo curi, ritirerò la domanda e la ripresenterò quando le condizioni saranno favorevoli».

C’è ancora spazio, però, per un ultimo colpo di teatro. «Do il consenso a qualunque operazione di rogatoria nei miei confronti, anche all’estero». Parole dell’indagato che sono state messe a verbale. «Voglio rimarcare il fatto che, assolutamente, non ho alcuna disponibilità economica.Anzi, in questo momento, solo difficoltà». Economiche. E non.

Benedetta Salsi