Rubiera (Reggio Emilia), 4 settembre 2013 - "ASPETTAVAMO sempre il sabato e la domenica perché in quei giorni il cortile della fabbrica, l’Eternit di Rubiera, diventava il nostro spazio giochi... Le lascio immaginare". Ricordi quotidiani e drammatici. Frammenti di una famiglia, quella di Giuseppina Foschi, 52 anni, oggi residente a Sassuolo, distrutta - come altre migliaia in tutta Italia - dall’amianto e, come confermato dai giudici della corte di appello di Torino, dall’azione delittuosa dei suoi vertici che occultarono i pericoli legati alla lavorazione del minerale. La famiglia Foschi, originaria di Morciano di Romagna, ha vissuto per quindici anni, dal 1970 al 1985, all’interno dell’Eternit di Rubiera: il padre, Emilio Foschi, infatti era il custode. Dopodiché alcuni fratelli sono rimasti a vivere tra Reggio e Modena, altri, come Giorgio, sono tornati in Romagna.
 

«DOMENICA 25 agosto — racconta Giuseppina Foschi — è morto mio fratello, Giorgio, aveva 47 anni». La causa? «Il mesotelioma», la mortale malattia che ha colpito migliaia di lavoratori in tutta Italia. Giorgio Foschi era cresciuto a Rubiera, dove era arrivato quando aveva solo 4 anni, e dove aveva appreso il mestiere che avrebbe svolto per tutta la vita, quello di tipografo, e al quale si è dedicato anche quando è tornato in Romagna dove si era costruito la sua vita. Fino al 2011, quando - dopo 26 anni da quando aveva lasciato Rubiera - gli è stato diagnosticato il mesotelioma. Da allora è iniziata la sua lotta contro questa malattia che si nasconde fin quasi all’ultimo. «Per tutto quello che hanno fatto — racconta la sorella di Giorgio — come famiglia vorremmo ringraziare il dottor Luciano Mutti del Gime, la dottoressa Calabrò dell’ospedale ‘Le Scotte’ di Siena e il dottor Grosseto, la dottoressa Farneti e il personale di cardiologia dell’ospedale ‘Infermi’ di Rimini».
 

«IO e mio fratello, insieme alla nostra famiglia — racconta la donna — abbiamo vissuto a Rubiera per quindici anni: dal 1970 al 1985. Nostra padre infatti per quel periodo lavorava come custode della fabbrica e noi, tutti originari di Morciano di Romagna, vivevamo in casa con lui. Oltre ai nostri genitori eravamo in quattro fratelli». E a Rubiera Giuseppina e Giorgio hanno trascorso la loro prima giovinezza. «Ricordo anche alcune parole di mia mamma: ‘Guarda quante polvere che c’è sui mobili, chissà cosa respiriamo’».

E dopo quasi quindici anni da quando tutta la famiglia Foschi lasciò la fabbrica, è iniziata la tragedia: «La prima è stata mia mamma, Rina, — afferma la Foschi —, deceduta nel 1998 per il mesotelioma, poi, nel 2005, è stato la volta di mio papà e infine, il 25 agosto, è morto mio fratello». Anche la famiglia Foschi, come altre decine di famiglie, si è costituita parte civile nel processo di Torino: «Abbiamo partecipato — spiega la 52enne a nome di tutta la famiglia — per non dimenticare, per mantenere vivo quanto accaduto e per sostenere la ricerca contro il mesotelioma». Memoria storica e sostegno economico. «Per noi il risarcimento (previsto dalla sentenza che il 3 giugno scorso ha condannato il patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny a 18 anni, ndr) è secondario — spiega Giuseppina Foschi —, ci interessa solo per donare fondi alla ricerca, al Gime e alla fondazione Buzzi Unicem». Su questa tragedia, secondo Giuseppina Foschi, urge investire sulla memoria: «A Rubiera, siccome la fabbrica è sparita (oggi sorgono diversi negozi, ndr) si sono voluti dimenticare i malati e i morti che ha lasciato e speriamo che non lasci più dietro di sè».

Alberto Ansaloni