Coronavirus, il medico accusa. "Si potevano salvare molte più vite"

Parla il dottor Luciano Tononi: "I medici di base sono stati lasciati in panchina e senza alcuna protezione"

Luciano Tononi

Luciano Tononi

Ravenna, 16 aprile 2020-  "Ci hanno messo in panchina, eppure potevamo fare tanto". Luciano Tononi, 69 anni, medico di famiglia a Riccione e responsabile sanitario della casa di riposo Pullè, punta il dito su un’organizzazione sanitaria che ha lasciato indietro un bel po’ della sua forza lavoro: i medici di base. E sul fatto che probabilmente ci sono state persone che sono morte di coronavirus perchè le diagnosi sono state fatte troppo tardi.

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Dottore, cosa intende? "E’ evidente, di fronte a un’emergenza che riguarda il territorio, quelli che come noi sono soprattutto sul territorio, non sono stati messi in condizioni di lavorare. Con tutto il rispetto per i colleghi dell’Ausl, certo non abbiamo avuto quello che hanno dato a loro".

Le protezioni? "Ce le siamo rimediate da soli. Adesso le mascherine arrivano, ma per un bel po’ ne vedavamo 5-10 al massimo alla volta, poi magari per dieci giorni non ne arrivava mezza. Ce le facevamo durare. Ci siamo procurati quasi tutto di nostra iniziativa, incluso i tamponi per accertare se fossimo o meno positivi, almeno alcuni di noi. Ancora non ci hanno fatto nemmeno il test, potevano distribuirceli e ce li saremmo fatti da soli, invece di questo avanti e indietro".

Quanto è stata dura non potere andare dai pazienti? "Moltissimo. Soprattuto all’inizio molti erano in preda all’ansia e al panico. Mi chiedevano di andare a vederli, qualche volta lo facevo a mio rischio e pericolo come altri miei colleghi, ma altre ero costretto a dire di no. Non avevo ‘niente’ da mettermi addosso. Nessuna protezione, quindi nessuna possibilità di muovermi. Fare interviste telefoniche per un medico non è certo la stessa cosa che vedere e toccare con mano. Avevo gente a casa con 39 di febbre da dieci giorni. Cercavo di sentirli almeno due volte in 24 ore, ma non potevo andare da loro. Non solo siamo stati abbandonati e messi in panchina, ma siamo stati anche messi in condizioni di abbandonare in un certo senso anche i nostri pazienti. Potevo fare poco, se non consolarli".

Vuol dire che ne sono morti di più? "E’ possibile. Perchè aspettare che compaiano i sintomi di una certa gravità, vuol dire che fai una diagnosi tardiva. Vuol dire che hai perso tempo. E’ così per ogni patologia, prima fai la diagnosi e più possibilità hai di superare il momento critico. E prima della messa in opera delle Unità speciali di continuità assistenziale composte dai medici che vanno a casa dei pazienti Covid, sono arrivati con ritardo. Se avessero dato ai medici di famiglia le protezioni necessarie per andare a domicilio, forse in qualche caso sarebbe andata diversamente. Adesso le cose sono migliorate, anche se non per noi che continuiamo a non poterci muovere. Dall’Ausl ho avuto un solo camice usa e getta...".

Perchè? "Non lo so, me lo sono chiesto spesso e non riesco a darmi una risposta".

Lei è anche responsabile sanitario della residenza Pullè. Lì com’è la situazione? "Nelle case di riposo, o sei preparato o se il virus entra è un massacro. Noi abbiamo deciso di chiudere tutto i primi di marzo: i 60 ospiti stanno tutti bene".