Isola delle Rose: la storia vera di Giorgio Rosa raccontata dai giornali dell'epoca

Nei ritagli d’archivio la vicenda assume contorni diversi da quelli tratteggiati nel film. I costi e lo scopo dell’operazione, l’idea politica del fondatore dello Stato indipendente

L'Isola delle Rose: il sogno dell'indipendenza è durato 55 giorni (archivio Carlino)

L'Isola delle Rose: il sogno dell'indipendenza è durato 55 giorni (archivio Carlino)

Rimini, 6 gennaio 2021 - Alla fine, l’ostacolo più grande per Giorgio Rosa è stata l’immaginazione. La sua, che lo ha spinto, seppur impreparato tra le onde, a nuotare in acque internazionali. E quella degli altri, che su una piattaforma in mezzo al mare hanno ambientato paradisi e inferni, personali o collettivi. Una questione di prospettiva, di sogni e di paure; persino alimentata dall’eco del tempo, che scorrendo mischia le carte. È così, per esempio, che ‘L’incredibile storia dell’Isola delle Rose’, film stravisto su Netflix in queste settimane, si allontana dalla vera storia della palafitta riminese compiendo un gran balzo di fantasia. Per fare chiarezza conviene andare a spulciare in archivio e ripescare i quotidiani dell’epoca. D’altronde, pellicole e romanzi torcono la trama seguendo i desideri del narratore; la cronaca, invece, ha il pregio dell’analisi e non strizza l’occhio ai posteri.

Chi, cosa, dove e quando

L’ancoraggio alla realtà, ad ogni modo, c’è anche nel film. Riguarda il chi, il cosa, il dove e il quando. L’ingegnere di Bologna, Giorgio Rosa, è il protagonista assoluto. Ha una quarantina d’anni all’epoca degli accadimenti. Severo Boschi sul Carlino del 28 giugno 1968 lo descrive così: “Biondo, statura media, occhi cerulei”. Un uomo maturo, comunque, che a vederlo oggi nelle fotografie in bianco e nero pare ancora più stagionato di quanto non dica l’anagrafe. Insomma, nulla a che vedere con le fattezze un po’ aspre di un Elio Germano fresco di laurea e caldo di passioni. A differenza del personaggio cinematografico, Rosa è un professionista affermato, già sufficientemente frustrato dai lacci e lacciuoli di una burocrazia barocca. Ed è proprio questa la scintilla che accende la lampadina: trovare un luogo libero per assicurare concretezza, quindi un ritorno economico, all’opera dell’ingegno. “E’ dal 1964 che la stiamo costruendo”, spiega Rosa a Boschi nell’intervista titolata ‘“Vogliamo che la truppa se ne vada” dichiara il fondatore del nuovo Stato’. E aggiunge: “I progetti risalgono addirittura al ‘58”. Prende corpo dalla carta un’isola di cemento e acciaio, che si poggia sul fondo marino grazie a nove grossi piloni di cemento armato lunghi 20 metri e ancorati a 13 metri sotto il pelo dell’acqua.

“L’idea – scrive il giornalista – fu dapprima tutta sua: ma gli mancarono i soldi. E allora si rivolse a sei misteriosi finanziatori”.

Di primo acchito, l’isola, venti metri per venti, quattrocento metri quadrati calpestabili in mezzo al mare, sembra proprio una di quelle piattaforme installate per estrarre gas o petrolio. La posizione è determinante. Si trova al largo di Torre Pedrera di Rimini, 400 metri oltre il limite marittimo delle acque territoriali, 6 miglia all’epoca, cioè 11,112 chilometri dal lido. Quindi oltre la legge italiana nella volontà dell’ingegnere, con tutte le implicazioni del caso.

Il 25 gennaio 1968 la costruzione può dirsi pronta, il 1° maggio dello stesso anno c’è l’inaugurazione con tanto di bollicine. Appena cinquantacinque giorni dopo, il 25 giugno, cala il sipario; dopodiché cominciano i titoli di coda su cui sfumano l’occupazione delle forze dell’ordine, gli atti legali e, infine, la demolizione.

Come nasce l’idea dello Stato indipendente

Ma cosa fa di una vicenda che a qualcuno potrebbe apparire molto simile a un abuso edilizio una narrazione a metà strada tra il mito generazionale e l’epopea libertaria? Ebbene, gli ingredienti non mancano. Innanzitutto, si tratta di una storia di confini: reali, giuridici, metaforici. E in quanto tale genera conflitti, emozioni, innovazioni. Ma pure difficoltà. Per esempio, la ricerca delle definizioni. Balza all’occhio negli articoli dell’epoca l’uso smodato delle virgolette, sintomo di un certo imbarazzo provato dai colleghi del tempo a trattare la materia. Come presine usate per maneggiare una pentola bollente, gli apici appaiono spessissimo all’inizio e alla fine della parola isola. La vicenda si fa ancora più paradossale con la fondazione dello Stato, il ‘Liberto territorio dell’Insulo de la Rozoj’, datata 1° maggio 1968. Come nasce l’idea? In un’intervista rilasciata al Carlino il 30 novembre 1988, Rosa è chiarissimo: “Essendo fuori dalle acque territoriali una veste giuridica dovevamo pur darcela. Eravamo consigliati da giuristi”: “il professor Angelo Sereni della Hopkins University, titolare della cattedra di diritto internazionale in più di un ateneo”, svela a Boschi nel pezzo del 28 giugno 1968. Per mettere in piedi uno Stato non bastano cemento e acciaio, però. Servono un nome, Libero territorio dell’Isola delle Rose, appunto; una moneta, il Mills, equiparato alla lira; una lingua ufficiale, l’Esperanto; e soprattutto un Governo. “Sotto la presidenza (affidata allo stesso Rosa, ndr) sarebbero stati cinque dipartimenti, delle finanze, degli interni, dell’industria e del commercio, delle comunicazioni e degli esteri”, scrive sul Carlino del 28 giugno 1968 Amedeo Montemaggi.

Perché nasce l’Isola delle Rose

D’accordo, ma a quale scopo? Insomma, per quale motivo dare vita a tutto questo circo? La fantasia ricama, allora come oggi. In fondo, l’isola è un archetipo prima che una definizione geografica: per alcuni evoca il sogno, la fuga, la libertà, rappresenta il rifugio in un’età dell’oro che mai è esistita e mai esisterà; per altri, date le medesime eppure contrarie ragioni, fa paura. Il Governo italiano, tutt’altro che atterrito dalla cementificazione selvaggia che ingrigisce il paesaggio del Belpaese proprio in quegli anni, più che l’abuso edilizio, vede nell’Isola delle Rose un pericoloso precedente. Che sia la base per una radio privata o una Cuba in miniatura, avamposto dell’orso sovietico a due passi dal Grand Hotel, poco cambia. La Chiesa, poi, alle prese con la liberazione dei costumi e la rivoluzione sessuale, fatica a tollerare l’idea di un Eden adriatico, patria per ogni trasgressione.

Il contesto storico, insomma, alimenta l’immaginazione. La cruda cronaca restituisce uno sbocco più prosaico. “Lui (Rosa, ndr) è un ingegnere – scrive sempre Boschi -, a muoverlo furono intendimenti di studio, ansie tecniche, quelle stesse che lo indussero a fondare la Spic, una società per lo studio e la costruzione di impianti da immersione (Società sperimentale per iniezioni in cemento)”. Non solo, ovviamente. “Una moderata speculazione, l’impiego di capitali”, spiega il padre fondatore, che nutre l’idea di replicare il progetto in giro per il mondo per fare profitti. Dopotutto, la sua piattaforma costa meno delle altre. “Gli scopi di utilizzazione turistica subentrarono poi; e, poco dopo, la trovata dei francobolli, i Mills, l’Esperanto, il resto”, dice Boschi. Rosa conferma: “Ci ripromettevamo eminentemente, anzi esclusivamente degli scopi turistici. Nelle nostre intenzioni era e rimane l’edificazione di un grande albergo in alto mare, una sorta di condominio. Lottizzata, l’isola avrebbe potuto essere ceduta a chi l’avesse voluta”. Intanto, viene affittato il bar, con il proposito di dare in locazione il negozio di souvenir, il ristorante e infine stanzette per domire. “Ci siamo proposti di creare una mini-Repubblica di San Marino in mezzo al mare”, chiarisce ancora il professionista bolognese parlando col Carlino il 3 luglio ’68. Il titolo del pezzo dice già tutto: ‘L’Isola delle Rose da “Stato” ad albergo’. Un hotel con oneri fiscali e burocratici ridimensionati rispetto alle strutture analoghe costruite sulla terra ferma.

I costi dell’operazione

Un’idea di sicuro impatto in anni di esplosione del turismo, soprattutto in Romagna. Un investimento di cui conosciamo anche le cifre. “Non ci è costata soltanto fatica – rivela Rosa a Boschi il 28 giugno 1968 -; ma anche parecchi denari, sessanta- settanta milioni di lire”. Che tradotti nella valuta odierna significa una somma compresa tra 588mila e 655mila euro, spicciolo più, spicciolo meno.

La guerra delle carte bollate

Soldi che con l’occupazione dell’isola e il blocco navale, decisi dal Ministero degli Interni e messi in atto dalle forze dell’ordine, rischiano di andare in fumo. “E’ una questione di proprietà e di danni sofferti che la Spic invoca – scrive Severo Boschi sul Carlino del 22 luglio 1968 -; entro la quale si inserisce la pretesa di giustificazione della “titolarità” dell’ordine di occupazione”. Sul giornale del 4 agosto dello stesso anno si legge: “L’avvocato Fusaro, per conto della signora Gabriella Chierici (la moglie di Giorgio Rosa, ndr), presidente della Spic, aveva presentato ricorso al Ministero degli Interni rivendicando la proprietà della piattaforma costruita al largo di Rimini e chiedendo la revoca, o in via subordinata, la sospensione del provvedimento d’urgenza in virtù del quale la polizia italiana occupò l’”isola” appena nata”.

Sul quotidiano del 2 ottobre, l’epilogo della vicenda. Claudio Santini firma l’articolo titolato ‘Condanna a morte per l’Isola delle Rose’. “Il Consiglio di Stato – scrive – ha ritenuto di non dovere accogliere l’istanza di sospensione del decreto di smantellamento del manufatto che sorge al largo di Rimini”. E aggiunge: “Si sarebbe anche detto che la presenza consacrata del manufatto in mezzo all’Adriatico creerebbe un precedente “pericoloso”. Un’isola come quella, si sarebbe detto, si può costruire in economia con tre-quaranta milioni e quindi per diverse persone abbienti sarebbe più originale e conveniente farsi costruire una palafitta fuori dalle acque territoriali che una villetta a terra. In parole povere: la presenza dell’Isola delle Rose costituirebbe un incentivo che potrebbe portare in pochi anni all’”affollamento” dell’Adriatico”.

È deciso. ‘Scompare l’isola delle rose’, spara il Carlino del 30 novembre 1968, mentre il 25 gennaio 1969, quando l’estate e il clamore sono ormai acqua passata, si legge: “L’ing. Giorgio Rosa, costruttore dell’”Isola delle rose”, ha assistito al secondo atto della demolizione della sua opera: i sommozzatori militari hanno fatto saltare tre pilastrini della terza fila di sostegni del tetto del manufatto di cemento ed acciaio eretto al largo di Rimini”. Una fotonotizia esplicitata da poche righe per chiudere la vicenda in mestizia.

Vent’anni dopo, sul Carlino del 30 novembre 1988, l’inventore rivive quei giorni. “La Cee, interpellata, ci fece sapere che non poteva far nulla: eravamo in acque internazionali e non europee. L’Onu, parimenti interpellata, rispose che l’Italia non riconosceva ancora, comunque, i suoi pronunciamenti. Intanto fu emesso un decreto di demolizione dell’isola. Ci rivolgemmo al Consiglio di Stato, al presidente della Repubblica Saragat, a tutti. Niente da fare. Venimmo poi a sapere che Moro e Pella non ne volevano sapere di questa isola. Il 30 novembre cominciarono a smontare la struttura. Poi chi mesi dopo intervenne la Marina con assetto da guerra: 75 chili di dinamite per ogni pilone. Neppure un graffio. Ce ne misero il doppio. Si incrinò, ma senza ribaltarsi, il resto l’hanno fatto le mareggiate. Un giorno di febbraio appresi a Bologna, dal “Carlino”, che onde tremende spazzarono via tutto: l’isola, lo stato, lo scherzo”.

Giorgio Rosa e la politica

Altro che sogno libertario, altro che ideale progressista, come si è scritto e raccontato. Altro che chiacchiere. Di politica Giorgio Rosa non ama parlare. Per lui che era stato soldato della Repubblica di Salò, “la Patria è finita l’8 settembre 1943”. “Per me – dice Rosa con una dichiarazione registrata dal Carlino il 6 luglio 1968 – è giusto tutto ciò che si opera non contro la legge”. “Potrò sembrare eccessivo – afferma parlando con Severo Boschi la settimana prima -: ma quando l’ho pensata, ho avuto in mente di manifestare una affermazione di libertà, perché nella libertà della autodecisione di ognuno credo fermamente”. “Sono un liberale fino alle ossa”, ripeterà poi più esplicitamente negli anni successivi, forse un po’ a disagio a vedersi disegnato con l’eskimo addosso.