Rimini, 12 dicembre 2023 – Un consiglio: non fatevi male di sabato, soprattutto se questo è compreso in un ponte festivo come quello dell’Immacolata.
Un infortunio domestico di media gravità (codice azzurro, secondo i parametri in uso nelle strutture dedicate all’emergenza) si può trasformare in un nero incubo. Lo sa bene chiunque abbia avuto bisogno del Pronto Soccorso di Rimini, com’è capitato anche a me. Arrivo, accompagnata da un familiare, verso mezzogiorno. Una banale caduta all’ingresso di casa, con conseguente tentativo di ripararsi con la mano destra, aveva causato la rottura di una falange e una ferita abbastanza netta in prossimità dell’anello indossato. Forse per la caduta o forse per la vista del sangue abbondante, c’è stata anche una breve perdita di coscienza. Per fortuna, all’arrivo in Pronto Soccorso non c’erano molte persone in attesa. Gli infermieri che hanno effettuato le prime valutazioni, un elettroardiogramma, un prelievo di sangue e la misurazione dei parametri, sono stati professionali e gentili. Niente medicazione alla ferita, ma solo una garza appoggiata alle dita sporche di sangue. In barella (capisco presto che questa è già una fortuna) inizia l’attesa di essere visitata dal medico.
Le stanze d’attesa del reparto sono già piene. Quindi, dopo una sosta di un quarto d’ora appoggiata di traverso a un’altra lettiga occupata, mi spostano nell’atrio, nel corridoio che porta al Pronto Soccorso pediatrico. Ci sono già altri pazienti, quasi tutti in barella, qualcuno sulla sedia. Ogni volta che si apre la porta d’ingresso scorrevole entra una ventata di gelo. E la porta si apre spesso. Saremo in 10-15 persone, lì a patire il freddo e a condividere i mali degli altri. Perché, va detto, in tali condizioni la privacy va a farsi benedire. E così, tra i lamenti della signora che chiama continuamente la mamma defunta e chiede aiuto a tutta voce, e i tanti che elemosinano una coperta, il personale presente cerca di fare del proprio meglio.
Durante l’attesa snervante di ben 12 ore, spettatori di due cambi di turno di infermieri e Oss (operatori socio sanitari), tocchiamo con mano il diverso atteggiamento di tre équipe verso i pazienti. Per qualcuno, purtroppo, la parola ‘gentilezza’ è sconosciuta. Se è legittimo chiedere informazioni sul proprio turno di chiamata, non lo è rispondere, con tono scortese e altezzoso, "ci sono attese di 12 e anche 15 ore!" e, alle lamentele del paziente, che vorrebbe tornarsene a casa e rinunciare all’assistenza, ribattere "sono scelte sue, questo è il numero del taxi!". Avendo con me il cellulare, ho potuto chiamare casa per chiedere acqua e panini, perché alle 23 ero ancora lì nel corridoio, con nessuno che venisse a dare un’occhiata sulle mie condizioni. Come me, tutti gli altri.
Freddo, coperte finite, distributore per bibite lontano. Unica consolazione, la consapevolezza che, al di là del gabbiotto dell’accettazione, sicuramente continuavano ad arrivare casi più gravi. La presa in carico da parte del medico, nel mio caso è avvenuta a mezzanotte e 40 minuti, dodici ore esatte dopo il mio arrivo. Ma non era finita lì, perché mentre ero in barella nell’ambulatorio, il dottore ha dovuto finire di scrivere i referti di altri tre pazienti e dare indicazioni ad una collaboratrice per la distribuzione nei vari reparti di chi necessitava il ricovero. Da qui, una domanda: ma è possibile che, in tempi di intelligenza artificiale, un medico di pronto soccorso non abbia degli strumenti che gli consentano di occuparsi di tali incombenze in modo più agevole? In definitiva, dopo le radiografie, un’antitetanica e l’indicazione di tornare il giorno dopo per la visita ortopedica, "perché dalle 20 e fino alle 8 del mattino quell’ambulatorio non è attivo", lascio l’ospedale all’1 e 40. Chi va al Pronto Soccorso non lo fa per capriccio personale, ma perché in certi contesti non c’è altra scelta.