San Leo, la rupe di Maestri Un’impresa memorabile

La scomparsa del celebre alpinista fa tornare alla mente un grande evento. Nel maggio del 1968 riuscì a scalare per la prima volta la temibile parete nord

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Segue dalla prima

La notizia della sua arrampicata alla maestosa rupe del Montefeltro era stata adeguatamente reclamizzata, tanto che era pure presente la Rai: perciò il 25 maggio 1968, giunto a San Leo con mio padre e il fotografo Davide Minghini, ho potuto conoscerlo e assistere alla sua scalata. Alle 9,15 di quel giorno, assistito dall’allievo Ezio Alimonta, con tranquillità Maestri si è accinto a salire sulla vetta sormontata dal meraviglioso castello di Francesco di Giorgio Martini, fortezza imprendibile ma anche carcere perpetuo per il Conte di Cagliostro.

La salita era costante e sembrava quasi una passeggiata; infantilmente credevo che in fondo fosse alla portata di tutti vedendo la sicurezza del rocciatore nell’arrampicarsi. Ma era solo un’illusione ottica: in precedenza altri, del Cai di Bologna, avevano tentato l’impresa senza riuscirci; la temibile parete nord della rupe era rimasta inviolata e questa circostanza aveva attratto Maestri. Perciò, osservando bene lo strapiombo, giudicato dagli esperti del tempo un sesto grado di oltre cento metri, tornavano i pensieri e le paure. Ma il viso sorridente e, nello stesso tempo, fermo di Maestri, nei miei ricordi, non ha mai, nemmeno per un secondo, tradito esitazione o incertezza: con un’assoluta padronanza, egli saliva quasi fosse un allenamento.

Stava infatti provando nuovi chiodi ad espansione, di cui peraltro era un vero e proprio esperto, e si sentiva a suo agio con la roccia, simile a quella delle sue amate Dolomiti. La fatica era però considerevole: i chiodi necessari sarebbero stati più di un centinaio ed era laborioso anche piantarli, dovendo ogni volta utilizzare punteruolo e martello; l’arrampicata veniva perciò rallentata rispetto alle previsioni, ma anche ciò non sembrava turbare l’animo del rocciatore.

I due scalatori erano essi stessi uno spettacolo: per quanto il tempo trascorresse lentamente, non si riusciva a staccare lo sguardo da questi “puntini” che, allargando braccia e gambe, sembravano letteralmente ragnetti, superbi nello sfidare la gigantesca mole della rupe. Ogni tanto perveniva qualche notizia alla moglie Fernanda collegata a Maestri con una radio portatile, e sempre si percepiva una tranquillità di fondo: "Nessuna difficoltà, i chiodi a pressione reggono egregiamente anche se impiantarli costa un’enorme fatica e sento moltissimo il caldo".

Dopo sessanta metri di ascensione è sopraggiunta la notte: alle 21, i due alpinisti si sono addormentati in parete esausti (per il giovane Alimonta era la prima volta), senza nemmeno accorgersi che un fastidioso temporale aveva scaricato la pioggia su San Leo. All’alba del 26 maggio hanno ripreso la scalata e sempre costantemente hanno risalito le ultime decine di metri. Solo nel primo pomeriggio, poco prima delle 17 il viso di Maestri è apparso ai tantissimi accalcati sotto il torrione del castello.

Ricordo infatti che tutta San Leo, e non solo, era raccolta a vedere l’uomo sfidare ancora una volta la natura: la domanda comune era ovviamente perché. Perchè scalare? Perchè mettere a repentaglio la propria vita? Perchè questo atto di superbia? Tanti alpinisti hanno risposto ma non devono aver soddisfatto l’animo umano, perché di fronte ad ogni impresa estrema, questo interrogativo riaffiora sempre.

Il desiderio di salire è innato, il cielo rappresenta la nostra meta irraggiungibile ed in fondo le religioni collocano nella volta celeste ogni forma di paradiso; l’ascensione ha sempre rappresentato una forma di sublimazione di eroi e di divinità tanto da attribuire alla sua traduzione greca, apoteosi, il significato di massimo trionfo. Maestri cercava nella vetta la soddisfazione di aver raggiunto la punta più alta da dove dominare con lo sguardo il mondo. In quel momento rappresentava forse tutti noi che aspiriamo a mete sempre più elevate, cerchiamo in alto di sfuggire ai problemi della terra e per questo scaliamo pareti che ci paiono inaccessibili.

Andrea Montemaggi