Rovigo, 15 marzo 2011 - E' ancora ignoto l’autore, e ne sono oscuri i motivi, dell’omicidio dell’ispettore dei Nocs, il rodigino Samuele Donatoni, ucciso a Riofreddo nel ‘97 in un blitz nelle fasi del sequestro Soffiantini, nonostante siano state pronunciate due sentenze, entrambe definitive, sulla stessa vicenda. Due decisioni che, per giunta, offrono verità diametralmente opposte.

Un paradosso giudiziario che viene raccontato da un giudice, anzi dal giudice che, discostandosi dalla sentenza che aveva condannato i banditi del sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini anche per l’uccisione dell’ispettore dei Nocs, ha sostenuto la tesi del ‘fuoco amico’ assolvendo dall’omicidio Giovanni Farina, uno dei carcerieri, processato in un secondo momento dopo la fine della sua latitanza in Australia. Mario Almerighi, un passato da pretore d’assalto, ora presidente del tribunale di Civitavecchia, in «Mistero di Stato La strana morte dell’ispettore Donatoni» (Aliberti editore - prefazione di Furio Colombo), accompagna il lettore, non imponendogli la sua verità, ma facendogli porre degli interrogativi, nel percorso che lo ha portato a rovesciare i risultati di una serie di indagini e la ricostruzione contenuta in una sentenza.

«Mi ero avvicinato a questo processo — spiega Almerighi — con lo spirito di rifare una cosa già fatta e di copiare la sentenza già confermata dalla Cassazione». E, invece, il ritrovamento tra gli atti di una busta sigillata contenente fotografie di una cinquantina di macchie di sangue vicine al luogo dove era stato ritrovato il corpo di Donatoni ha aperto uno scenario scioccante. «Seguendo quelle tracce - prosegue il magistrato - si capiva che l’ispettore era stato colpito altrove e il corpo trascinato in quel posto. In quel preciso punto non c’era neanche una goccia di sangue. Sono rimasto sbalordito - ricorda Almerighi -. La cosa grave è che nessuno aveva mai parlato di quelle macchie che scoprii che erano state distrutte dopo la comparazione con il sangue dei banditi».

Da qui la riapertura dell’istruttoria, una perizia d’ufficio, convocazione di testimoni mai sentiti e la conferma di quell’intuizione legata alle foto delle macchie di sangue.  «I periti della Corte - rivela Almerighi - hanno stabilito che lo sparo era partito da una pistola in uso ai Nocs impegnati nell’operazione organizzata in occasione del finto pagamento del riscatto (e non dal kalashnikov di uno dei banditi, come aveva ritenuto la sentenza di condanna dei sequestratori) e a una distanza ravvicinata di 40-60 centimetri. Il corpo era stato posizionato poi in direzione degli spari del bandito. Dal momento dello sparo a quando venne trovato Donatoni passarono 15 minuti, fatali, senza che l’ispettore potesse essere soccorso. Ma perchè tutta questa messinscena per non far emergere la verità?, si chiede Almerighi: «trasportare uno che sta per morire per 200 metri, offrire false testimonianze... Perchè non ammettere magari l’incidente?».

Mistero di Stato, un intreccio tra vero e verosimile, è pervaso, quindi, dall’amara considerazione che la verità processuale non sempre coincide con la verità reale. «Un giudice è sereno quando riesce a farle combaciare. E io - riflette Almerighi - sull’omicidio Donatoni mi sento sereno». Tuttavia, la convinzione del magistrato, fondata non su un’opinione personale, ma sulla valutazione delle prove emerse nel corso del processo, non è sbandierata nel libro come verità assoluta. Due personaggi inventati, Agostino e Tommaso, amici e colleghi dell’ispettore ucciso, commentano in maniera dialettica ogni udienza del processo insinuando dubbi nel lettore, costretto dalla fantasia a misurarsi con i fatti narrati e a crearsi il suo libero convincimento.